Il tema dell'immigrazione è sempre divisivo perché viene sostanzialmente affrontato ideologicamente o, nel caso migliore, settorialmente od unilateralmente senza una visione complessiva del fenomeno e di quelli ad esso connessi. Ad evitare ciò, sarebbe necessario esaminarlo sulla base di dati oggettivi e di analisi razionali. È quello che si era cercato di fare col documento a suo tempo redatto in materia (che si trova alla voce DOCUMENTI del menù in home page, ndr) nei cui confronti tuttavia non sono mancate le critiche e le prese di distanza. In particolare, nel documento ci eravamo chiesti se l'Europa non fosse già densamente abitata (una densità media di 100 abitanti per kmq, che va al di là dei 200 e talora i 300 per kmq nella parte occidentale) e pertanto se, oltre a doverosamente accogliere rifugiati, potesse essere ritenuta terra di immigrazione. È un quesito da molti ritenuto inaccettabile. Fra questi, ci sono coloro che considerano il diritto di migrare e la conseguente accoglienza dei migranti come assoluti a fronte dei quali non esistono possibili ragioni di ostacolo. Altri ritengono non proponibile l'interrogativo perché non si potrebbe stabilire in modo oggettivo quale sia la soglia invalicabile del carico demografico di un territorio, in quanto dipende da troppi fattori e dagli obbiettivi che una società si pone: ad esempio, per favorire la crescita economica, si ritiene indispensabile che aumenti il numero degli abitanti le cui necessità verrebbero ad essere soddisfatte da una accresciuta produzione; c'è, inoltre, da combattere la denatalità che produce l'invecchiamento della popolazione ed altera l'equilibrio fra le classi di età, ponendo gravi problemi nei conti degli enti pensionistici. Soprattutto, si dice che nel mondo globalizzato (in cui circolano, merci, capitali e persone) pesa sempre di meno la relazione fra le necessità di una popolazione e le risorse del suo territorio. È il caso quindi di affrontare la questione e rispondere alle critiche.
Sulla prima obiezione, non ho nulla da dire se non che sia un discorso fuori della realtà: pertanto non è possibile un confronto su base razionale, come accade con ogni tesi che prescinda dai dati quantitativi.
La seconda invece merita una risposta.
Ci sono certamente Paesi, come l'odierna Singapore, o, come, in passato, le Repubbliche marinare italiane o le città anseatiche, la cui popolazione vive, e viveva, di soli commerci ed attività finanziarie, ma si tratta di fenomeni che non possono essere generalizzati. Per la maggior parte dei Paesi del mondo, esiste in ogni epoca, in base alle tecnologie disponibili, una significativa relazione (o anzi una necessaria relazione) tra popolazione residente e risorse del territorio. Ad essa, sfuggono, ancora oggi, quei Paesi che, grazie alla loro potenza industriale finanziaria o militare, hanno prelevato (o, forse meglio, predato) fino ad ora le risorse di terre lontane, di Paesi deboli o arretrati. Si dice che ciò sia il frutto della “specializzazione internazionale” delle attività produttive, indispensabile a fronte di differenze di clima, di risorse naturali, di attitudini innate, di grado di civiltà e, appunto, di densità di popolazione. Ma questo discorso risulta essere anche un alibi per celare i rapporti squilibrati ed ingiusti tra Paesi ricchi e Paesi poveri.
Come valutare la relazione fra carico demografico e territorio? Al momento, per quanto a mia conoscenza, il parametro utilizzabile è quello dell'impronta ecologica, che indica la quantità di territorio (bioproduttivo) necessaria per soddisfare i consumi umani (rispettando la capacità della Terra di rigenerare le risorse utilizzate) e per assorbire o metabolizzare i rifiuti prodotti. Molti (in specie economisti) sono critici rispetto a questi parametri, tuttavia non sono a conoscenza che costoro ne abbiano proposti altri in grado di sostituirli. Quindi per una valutazione della situazione, sia pure grossolanamente indicativa, è di necessità ricorre ad essi.
Secondo l'Ecological Footprint Atlas del 2010, il divario tra l'impronta ecologica e la superficie bioproduttiva disponibile (espressi in ettari pro capite), relativamente ai Paesi dell'Europa occidentale, è molto ampio: Italia 4,99 ettari contro 1,14; Germania 5,08 ha contro 1,92 ha; Regno Unito 4,89 ha contro 1,34 ha; Olanda 6,19 ha contro 1,03 ha; Belgio 8 ha contro 1,34 ha. Un po' migliore (ma sempre deficitaria) la situazione della Francia (5,01 ha contro 3,00 ha), territorio meno densamente popolato rispetto ai precedenti.
Ora, anche volendo ammettere tutte le critiche nei confronti di tali parametri, e pur tenendo conto che abbandonando l'attuale consumismo si ridurrebbe la dimensione dell'impronta ecologica, l'entità del divario (ad esempio, nel caso dell'Italia di più di 4 volte ed in quello del Belgio di quasi 6 volte) mostra che i territori dell'Europa occidentale non sono in grado di sostenere la popolazione che li abita senza ricorrere alle risorse altrui e senza che siano scaricati altrove i propri rifiuti o cataboliti, ciò che contribuisce al crescente degrado ambientale.
Il calo demografico in atto, alimentato da una denatalità dai tratti patologici, crea certamente problemi di vario ordine, ma, al momento, non ha mutato ancora lo scenario descritto. Un graduale calo demografico (non drastico come l'attuale) sarebbe positivo fino a che si stabilisca un equilibrio tra popolazione e territorio.
Sul tema delle problematiche create dalla denatalità in un'area densamente popolata e dai connessi squilibri fra classi di età, merita considerare la situazione del Giappone, un Paese con basso indice di fecondità femminile e con una componente anziana della popolazione assai rilevante (33,8% di ultrasessantenni contro il 27,3% dell'Italia). Il Giappone, con 127 milioni di abitanti su un territorio di 377.972 kmq, peraltro molto montagnoso e con superficie coltivabile assai limitata, ha una impronta ecologica che supera di quasi 8 volte la superficie bioproduttiva disponibile. Il Paese necessita per sopravvivere di importare gran parte delle risorse energetiche, di quelle materiali e degli alimenti. Nella prima metà del Novecento, tali necessità lo hanno spinto a una politica di espansionismo militare finita tragicamente. Nel secondo dopoguerra, è diventato una potenza industriale esportatrice di prodotti tecnologicamente avanzati, contando a tal fine anche sulla fonte energetica nucleare. Tuttavia, la sua classe dirigente, ben consapevole dei pericoli di un futuro problematico e difficile da prevedere, si adatta al drastico calo di popolazione senza ricorrere all'immigrazione, facendo fronte ai problemi che esso crea con l'adozione di tecnologie sostitutive del lavoro umano e in particolare della robotica, sia nelle fabbriche sia nei servizi alla persona.
Rispetto al fatto che i Paesi ad alta densità demografica possano sopperire alle loro necessità di materie prime ed alimenti, non coperte dal proprio territorio, mediante l'esportazione di manufatti di alta tecnologia o di prodotti di grande qualità (generi di lusso, vini pregiati, ecc.), o grazie alla finanza, o a quanto attiene alla conoscenza (brevetti ecc.), sarebbe bene essere prudenti perché nessuno può garantire che il tipo di relazioni attualmente in vigore tra Paesi non possa mutare profondamente.
Prendiamo in considerazione due fattori.
In primo luogo, il primato tecnologico che consente ai Paesi “avanzati” di vivere scambiando prodotti e servizi contro materie prime non è un fenomeno di cui sia garantita la continuità nel tempo. Chiunque abbia frequentato, ancora trent’anni fa, dei convegni scientifici internazionali, avrebbe visto la partecipazione dominante di europei e nordamericani con una qualche presenza di provenienti da altri Paesi industrializzati (come giapponesi o australiani o russi). Oggi, in tali convegni, i ricercatori dei Paesi allora esclusi sono sempre più numerosi, talora in maggioranza. Questo significa che, in ambito scientifico, la distanza tra Paesi “avanzati” e Paesi in via di sviluppo si attenua sempre più. E con la crescita del livello scientifico, aumenta la capacità tecnologica. In tal modo, i Paesi possessori di materie prime tendono a trasformarle in loco aggiungendovi valore; così spostano a loro favore le condizioni di scambio con i Paesi ai quali un tempo le fornivano a basso prezzo. Anche la crescita demografica dei Paesi del Sud del mondo spinge in tale direzione: infatti quote crescenti della disponibilità di materie prime e risorse alimentari saranno trasformate e trattenute in loco per soddisfare i fabbisogni di una popolazione in crescita. È evidente che si fa e si farà sempre più complicata la situazione dei Paesi che vivono di commerci e della trasformazione manifatturiera delle materie prime importate.
In secondo luogo, teniamo conto che possono sempre sopraggiungere situazioni critiche di vario ordine (guerre, rivoluzioni, terrorismo, crisi monetarie o economiche, ecc.) che interrompono o alterano gli scambi tra Paesi, mettendo in gravi difficoltà quelli che dipendono dall'estero per reperire risorse vitali per la popolazione. Ho ricordato, in altro articolo, la situazione della Germania quando, durante la Prima guerra mondiale, si verificò, a causa del blocco navale britannico, un rilevante numero di morti di stenti fra la popolazione, perché il Paese non era autosufficiente sul piano alimentare. Oggi gli Stati Uniti, malgrado il ruolo dominate a livello planetario, si garantiscono da ogni evenienza negativa, in tema di alimenti e di idrocarburi, sostenendo e difendendo a spada tratta la propria produzione agricola e ricorrendo a gas e petrolio “di casa”, ottenuti con una tecnologia (fracking) dai pesanti risvolti negativi sul piano ambientale.
Bisogna poi avere presente che lo scenario prodotto dalle modificazioni climatiche in corso sicuramente interverrà a mutare in senso ancora più negativo la situazione di molti Paesi, specialmente se densamente popolati. A sentire i media, gli effetti negativi da esse prodotti sembrerebbero un problema riguardante il solo Sud del mondo (per quanto sia meno attrezzato ad affrontarli). In realtà, l’impatto delle modificazioni climatiche riguarderà (e già sta riguardando) anche l'Europa. Infatti la scomparsa dei ghiacciai alpini, la siccità, che già sta coinvolgendo e sempre più coinvolgerà la fascia meridionale del nostro continente, e il concentrasi delle precipitazioni in brevi periodi avranno pesanti ripercussioni sulle attività agricole, e non solo. Quindi si ridurrà la capacità del continente europeo di far fronte ai bisogni della sua popolazione.
In base a quanto detto, si può pertanto legittimamente sostenere che l'Europa occidentale sia attualmente già densamente popolata, malgrado la marcata denatalità. Il carico demografico dei territori (come per ogni altro elemento quantitativo) è un aspetto di cui si deve sempre tenere conto quando si parla di problemi epocali, quali migrazioni, disoccupazione strutturale, conflitti, povertà vecchia e nuova: problemi, sempre interconnessi, da affrontare con grande senso della realtà (che non fa mai sconti a nessuno) perché le soluzioni sono e saranno difficili, complesse, sempre parziali e, purtroppo, dolorose.
Viviamo in un mondo dai tratti inquietanti. Dice uno studio della Banca Mondiale (pubblicato a fine ottobre 2017) che “il Ventunesimo secolo sta assistendo alla collisione fra due forze inarrestabili: un'esuberante crescita demografica e un clima che cambia”, due fenomeni preoccupanti che non sembrano suscitare l'attenzione della politica e dell'informazione.
E pensare che, comunque, ci sarà sempre l'innovazione tecnologica a risolvere i problemi è, quanto meno, assai imprudente.
Sulla prima obiezione, non ho nulla da dire se non che sia un discorso fuori della realtà: pertanto non è possibile un confronto su base razionale, come accade con ogni tesi che prescinda dai dati quantitativi.
La seconda invece merita una risposta.
Ci sono certamente Paesi, come l'odierna Singapore, o, come, in passato, le Repubbliche marinare italiane o le città anseatiche, la cui popolazione vive, e viveva, di soli commerci ed attività finanziarie, ma si tratta di fenomeni che non possono essere generalizzati. Per la maggior parte dei Paesi del mondo, esiste in ogni epoca, in base alle tecnologie disponibili, una significativa relazione (o anzi una necessaria relazione) tra popolazione residente e risorse del territorio. Ad essa, sfuggono, ancora oggi, quei Paesi che, grazie alla loro potenza industriale finanziaria o militare, hanno prelevato (o, forse meglio, predato) fino ad ora le risorse di terre lontane, di Paesi deboli o arretrati. Si dice che ciò sia il frutto della “specializzazione internazionale” delle attività produttive, indispensabile a fronte di differenze di clima, di risorse naturali, di attitudini innate, di grado di civiltà e, appunto, di densità di popolazione. Ma questo discorso risulta essere anche un alibi per celare i rapporti squilibrati ed ingiusti tra Paesi ricchi e Paesi poveri.
Come valutare la relazione fra carico demografico e territorio? Al momento, per quanto a mia conoscenza, il parametro utilizzabile è quello dell'impronta ecologica, che indica la quantità di territorio (bioproduttivo) necessaria per soddisfare i consumi umani (rispettando la capacità della Terra di rigenerare le risorse utilizzate) e per assorbire o metabolizzare i rifiuti prodotti. Molti (in specie economisti) sono critici rispetto a questi parametri, tuttavia non sono a conoscenza che costoro ne abbiano proposti altri in grado di sostituirli. Quindi per una valutazione della situazione, sia pure grossolanamente indicativa, è di necessità ricorre ad essi.
Secondo l'Ecological Footprint Atlas del 2010, il divario tra l'impronta ecologica e la superficie bioproduttiva disponibile (espressi in ettari pro capite), relativamente ai Paesi dell'Europa occidentale, è molto ampio: Italia 4,99 ettari contro 1,14; Germania 5,08 ha contro 1,92 ha; Regno Unito 4,89 ha contro 1,34 ha; Olanda 6,19 ha contro 1,03 ha; Belgio 8 ha contro 1,34 ha. Un po' migliore (ma sempre deficitaria) la situazione della Francia (5,01 ha contro 3,00 ha), territorio meno densamente popolato rispetto ai precedenti.
Ora, anche volendo ammettere tutte le critiche nei confronti di tali parametri, e pur tenendo conto che abbandonando l'attuale consumismo si ridurrebbe la dimensione dell'impronta ecologica, l'entità del divario (ad esempio, nel caso dell'Italia di più di 4 volte ed in quello del Belgio di quasi 6 volte) mostra che i territori dell'Europa occidentale non sono in grado di sostenere la popolazione che li abita senza ricorrere alle risorse altrui e senza che siano scaricati altrove i propri rifiuti o cataboliti, ciò che contribuisce al crescente degrado ambientale.
Il calo demografico in atto, alimentato da una denatalità dai tratti patologici, crea certamente problemi di vario ordine, ma, al momento, non ha mutato ancora lo scenario descritto. Un graduale calo demografico (non drastico come l'attuale) sarebbe positivo fino a che si stabilisca un equilibrio tra popolazione e territorio.
Sul tema delle problematiche create dalla denatalità in un'area densamente popolata e dai connessi squilibri fra classi di età, merita considerare la situazione del Giappone, un Paese con basso indice di fecondità femminile e con una componente anziana della popolazione assai rilevante (33,8% di ultrasessantenni contro il 27,3% dell'Italia). Il Giappone, con 127 milioni di abitanti su un territorio di 377.972 kmq, peraltro molto montagnoso e con superficie coltivabile assai limitata, ha una impronta ecologica che supera di quasi 8 volte la superficie bioproduttiva disponibile. Il Paese necessita per sopravvivere di importare gran parte delle risorse energetiche, di quelle materiali e degli alimenti. Nella prima metà del Novecento, tali necessità lo hanno spinto a una politica di espansionismo militare finita tragicamente. Nel secondo dopoguerra, è diventato una potenza industriale esportatrice di prodotti tecnologicamente avanzati, contando a tal fine anche sulla fonte energetica nucleare. Tuttavia, la sua classe dirigente, ben consapevole dei pericoli di un futuro problematico e difficile da prevedere, si adatta al drastico calo di popolazione senza ricorrere all'immigrazione, facendo fronte ai problemi che esso crea con l'adozione di tecnologie sostitutive del lavoro umano e in particolare della robotica, sia nelle fabbriche sia nei servizi alla persona.
Rispetto al fatto che i Paesi ad alta densità demografica possano sopperire alle loro necessità di materie prime ed alimenti, non coperte dal proprio territorio, mediante l'esportazione di manufatti di alta tecnologia o di prodotti di grande qualità (generi di lusso, vini pregiati, ecc.), o grazie alla finanza, o a quanto attiene alla conoscenza (brevetti ecc.), sarebbe bene essere prudenti perché nessuno può garantire che il tipo di relazioni attualmente in vigore tra Paesi non possa mutare profondamente.
Prendiamo in considerazione due fattori.
In primo luogo, il primato tecnologico che consente ai Paesi “avanzati” di vivere scambiando prodotti e servizi contro materie prime non è un fenomeno di cui sia garantita la continuità nel tempo. Chiunque abbia frequentato, ancora trent’anni fa, dei convegni scientifici internazionali, avrebbe visto la partecipazione dominante di europei e nordamericani con una qualche presenza di provenienti da altri Paesi industrializzati (come giapponesi o australiani o russi). Oggi, in tali convegni, i ricercatori dei Paesi allora esclusi sono sempre più numerosi, talora in maggioranza. Questo significa che, in ambito scientifico, la distanza tra Paesi “avanzati” e Paesi in via di sviluppo si attenua sempre più. E con la crescita del livello scientifico, aumenta la capacità tecnologica. In tal modo, i Paesi possessori di materie prime tendono a trasformarle in loco aggiungendovi valore; così spostano a loro favore le condizioni di scambio con i Paesi ai quali un tempo le fornivano a basso prezzo. Anche la crescita demografica dei Paesi del Sud del mondo spinge in tale direzione: infatti quote crescenti della disponibilità di materie prime e risorse alimentari saranno trasformate e trattenute in loco per soddisfare i fabbisogni di una popolazione in crescita. È evidente che si fa e si farà sempre più complicata la situazione dei Paesi che vivono di commerci e della trasformazione manifatturiera delle materie prime importate.
In secondo luogo, teniamo conto che possono sempre sopraggiungere situazioni critiche di vario ordine (guerre, rivoluzioni, terrorismo, crisi monetarie o economiche, ecc.) che interrompono o alterano gli scambi tra Paesi, mettendo in gravi difficoltà quelli che dipendono dall'estero per reperire risorse vitali per la popolazione. Ho ricordato, in altro articolo, la situazione della Germania quando, durante la Prima guerra mondiale, si verificò, a causa del blocco navale britannico, un rilevante numero di morti di stenti fra la popolazione, perché il Paese non era autosufficiente sul piano alimentare. Oggi gli Stati Uniti, malgrado il ruolo dominate a livello planetario, si garantiscono da ogni evenienza negativa, in tema di alimenti e di idrocarburi, sostenendo e difendendo a spada tratta la propria produzione agricola e ricorrendo a gas e petrolio “di casa”, ottenuti con una tecnologia (fracking) dai pesanti risvolti negativi sul piano ambientale.
Bisogna poi avere presente che lo scenario prodotto dalle modificazioni climatiche in corso sicuramente interverrà a mutare in senso ancora più negativo la situazione di molti Paesi, specialmente se densamente popolati. A sentire i media, gli effetti negativi da esse prodotti sembrerebbero un problema riguardante il solo Sud del mondo (per quanto sia meno attrezzato ad affrontarli). In realtà, l’impatto delle modificazioni climatiche riguarderà (e già sta riguardando) anche l'Europa. Infatti la scomparsa dei ghiacciai alpini, la siccità, che già sta coinvolgendo e sempre più coinvolgerà la fascia meridionale del nostro continente, e il concentrasi delle precipitazioni in brevi periodi avranno pesanti ripercussioni sulle attività agricole, e non solo. Quindi si ridurrà la capacità del continente europeo di far fronte ai bisogni della sua popolazione.
In base a quanto detto, si può pertanto legittimamente sostenere che l'Europa occidentale sia attualmente già densamente popolata, malgrado la marcata denatalità. Il carico demografico dei territori (come per ogni altro elemento quantitativo) è un aspetto di cui si deve sempre tenere conto quando si parla di problemi epocali, quali migrazioni, disoccupazione strutturale, conflitti, povertà vecchia e nuova: problemi, sempre interconnessi, da affrontare con grande senso della realtà (che non fa mai sconti a nessuno) perché le soluzioni sono e saranno difficili, complesse, sempre parziali e, purtroppo, dolorose.
Viviamo in un mondo dai tratti inquietanti. Dice uno studio della Banca Mondiale (pubblicato a fine ottobre 2017) che “il Ventunesimo secolo sta assistendo alla collisione fra due forze inarrestabili: un'esuberante crescita demografica e un clima che cambia”, due fenomeni preoccupanti che non sembrano suscitare l'attenzione della politica e dell'informazione.
E pensare che, comunque, ci sarà sempre l'innovazione tecnologica a risolvere i problemi è, quanto meno, assai imprudente.
Non sono in grado di etrare nel merito degli argomenti specialistici tratti non avendone la competenza ma una cosa è certa: che il metodo di approfondimento scientifico della questione demografia/territorio di cui si serve Ladetto mostra una grande serietà di trattazione al di là di ideologici “buonismi” o “cattivismi”.
Questo solo mi sento di dire nel merito: che è probabile che il primo dei problemi ecologici, malgrado l’indubbia incombenza di quelli derivanti dalle varie forme di inquinamento e dal condizionamento climatico da emissioni varie (con conseguenti squilibri zoologici e botanici), è forse proprio quello derivante dalla bomba demografica che non riesce più a trovare sfogo in tutto il pianeta.
Con grande lucidità e notevole spessore culturale il pregevole e documentato contributo di Giuseppe Ladetto evidenzia aspetti in tema di immigrazione di cui non si può non tener conto se si è persone, e politici, responsabili. Argomenti solidi ma che rimangono in un cono d’ombra perché non funzionali agli interessi di quella supercasta globale a cui per troppo tempo sono andate a rimorchio le culture riformiste, compresa ahimè la nostra, le quali, non a caso, vedono oggi la loro credibilità crollare a pezzi davanti al popolo.
In particolare il paragrafo dedicato al Giappone dice una straordinaria verità, ma che il discorso delle élites globaliste e dei loro media asserviti, censura: la denatalità gestita con criterio può costituire anche una chance e che l’immigrazione non è mai una necessità, né per i problemi demografici né per il lavoro, ma costituisce una scelta politica ben precisa, ancorché non presa per via democratica ma dettata dalla feroce avidità dell’establishment, candeggiata dai media in “filantropia”.
Il Giappone non ha immigrazione, non conosce il precariato, ha la piena occupazione, il suo bilancio pubblico non è soggetto a rischi di rating o di spread, soprattutto perché dispone della sovranità monetaria che gli consente di monetizzare il proprio debito pubblico che è al 230%del pil, ma anche perché non ha ceduto alle facili lusinghe di una deportazione di manodopera straniera schiava per fare dumping salariale. Un modello e un esempio per noi e per una burocrazia dell’Ue retta invece da interessi che sono contrari ai lavoratori e trasformano in direttive misure che aumentano vistosamente le disuguaglianze sociali, che defraudano chi lavora per rendere l’esigua casta transnazionale dei super-paperoni sempre più ricchi.
Consentitemi di prendere lo spunto dai commenti di Giuseppe Davicino all’articolo di Giuseppe Ladetto e di riallacciarmi a quanto detto in essi sul caso giapponese di “stagnazione felice” economico-demografica la cui particolarità ci consente di uscire dai dominanti schemi culturali funzionali al sistema di potere costruito dalle élites globaliste e diffuso dai media a loro asserviti.
Per non cadere nella trappola tesa dal pensiero dominante credo che in primo luogo vada effettuata una sorta di igiene mentale da un lato mediante la reintroduzione nel vocabolario, e nelle dispute correnti inerenti alle problematiche economiche e politiche, non scindibili dal quadro ecologico- demografico, di parole che dalla fine del secolo scorso ne sono state espunte in quanto ritenute inopportune, per non dire imbarazzanti, per l’establishement. La loro inopportunità nasce dal fatto che tali parole, che sono “anarcocapitalismo” e “partitocrazia”, una volta introdotte nel discorso, impedirebbero che altre parole vengano usate contro le stesse élites globaliste anziché, con uno scorretto uso semantico, venissero in soccorso delle loro tesi, come invece oggi correntemente avviene. Le parole correntemente usate in modo scorretto dalle élites globaliste a difesa delle loro tesi sono “sovranismo” e “populismo”.
Della parola “anarcocapitalismo”, a mia memoria, ne ho perse le tracce sulla stampa nell’anno 2000 o 2001 quando sul Corriere della Sera apparve in terza pagina uno schema in cui venivano nominati gli economisti (più o meno vicini alla ultraliberista Scuola di Chicago) che aderivano a questa dottrina che, semplificando al massimo, afferma il primato all’economia sulla politica (una frase tipica della Scuola di Chicago è: “Lo stato è il problema!”) colorando questo primato di una sorta di funzione escatologica di salvezza del genere umano nell’immanente. Anche la parola “partitocrazia”, coniata nell’immediato secondo dopoguerra ad indicare la degenerazione dei partiti politici che trasforma questi ultimi da mezzi di democrazia a fini affaristici e di potere, da alcuni decenni è sparita dal vocabolario dei media.
E della sparizione di queste due parole è chiaro il perché: nel momento in cui di fatto la politica è diventata da attività di una istituzione sovrana alla quale è demandato per tradizione millennaria il compito di assicurare giustizia nel cercare di distribuire tra i membri della comunità sociale diritti e ricchezze evitando sopraffazioni (senza le quali funzioni la suddetta tradizione affermava, a cominciare da Platone, che i regna in nulla differiscono da dei volgari latrocinia, cioè dalle bande di puri e semplici briganti) solo più una entità che, frenando gli attori economici, visti quasi come i sacerdoti di una religione di salvezza, tutta immanente e dozzinalmente materialistica, doveva essere fugato qualsiasi dubbio circa il fatto che questi fossero esplicitamente i fini dell’ “antisovranismo” predicato dall’anarcocapitalismo (che, a mio avviso, ha le sue origini storiche nella rivolta dei coloni americani contro il re d’Inghilterra).
Va infatti da sé che in tale delirante salvifica forma di dottrina teoantropologica (l’uomo che ha come scopo di “fare del mondo un Pantheon e gli uomini in dii mutare”) non può che imporsi di fugare il dubbio che la sottomissione degli ormai esautorati reggitori politici ai suoi (salvifici, e quindi sommi e conseguentemente non sindacabili da altre entità sovrane) interessi non sia altro che l’assevimento di coloro, nelle attuali democrazie eletti dal popolo, che dovrebbero assicurare “giustizia”, a puri e semplici interessi “particulari” (leggi accumuli smodati di ricchezza in poche mani: già Aristotele aveva ben chiaro che era opportuno che una polis, per essere felicemente governata, era necessario che non vi fossero eccessive disparità di reddito tra i cittadini) dei “salvifici costruttori di ricchezza”.
Sembrerà strano ma è proprio sulla candida idea che le ricchezze del mondo fossero infinite, e che quindi fosse sufficiente che, senza troppi intoppi legali posti dai perfidi politici (aleggia dietro a ciò l’odio dei coloni angloamericani verso il tirannico re d’Inghilterra), fossero “anarchicamente” sfruttate dagli indubitabilmente salvifici convogliatori del capitale verso un altrettanto indubitabilmente proficuo lavoro umano guidato da una altrettanto assolutamente salvifica tecnologia che si basa la visione del mondo oggi dominante nei paesi occidentali.
Il fatto è che la realtà naturale e le passioni umane non cospirano necessariamente in tal senso, dal momento che le risorse naturali non sono infinite per cui può darsi che dei non corretti politici partitocrati ritengano vantaggioso asservirsi ai detentori di ricchezza per averne parte tradendo il bisogno di giustizia dei cittadini (ricordiamo che, indipendentemente dall’oggi, la coscienza delle problematiche che comporta l’interferenza tra il potere politico e la ricchezza privata ha radici millenarie presso i più disparati popoli di antica civiltà, tra cui i greci ed i cinesi). Questa è stata la rivoluzione del moderno mondo industriale: abolire l’idea di limiti naturali dando l’illusione che basta sfruttare in modo efficiente la natura per essere tutti (e senza limiti demografici, ovviamente) ricchi per cui chi è ricco lo è solo perché “si da da fare” (e ovviamente perché “pensa positivo”) ed il povero è povero perché “non si sa dare da fare” (e ovviamente perché “pensa negativo”) senza l’interferenza di altri fattori, naturali o derivanti da caratteristiche dell’animo umano. E questo ha automaticamente distrutto anche il primato, visto per millenni come necessario, del potere politico su quello economico, concetto quest’ultimo che oggi ha assunto significati ben diversi da quelli che aveva prima dell’affermarsi della società tecnologico-industriale, annullando l’aristotelica distinzione tra economia e crematistica, ben presente nella mentalità antica e inglobando la seconda nella prima.
Come si vede l’autosalvifico homo tecnologicus si trova immerso, almeno nella sua versione occidentale, in un ginepraio concettuale (oltretutto ben aromatizzato dal “pensare positivo”) dal quale gli riesce difficile uscire. E’ come se lo homo technologicus occidentalis avesse inserito il pilota automatico verso l’autodistruzione economica e sociale. Altro che democratiche elezioni per le scelte dei migliori! Non a caso nel mondo occidentale aumenta sempre più la gente non va più neppure a votare!
In questo quadro va detto che l’Unione Europea, stupendamente perversa istituzione anarcocapitalistica che, a cominciare dalla fine del secolo scorso, deviando dal percorso federalistico (e quindi di unità politica, vista all’interno di in un’ottica di di sovranità federale continentale) che aveva in altri tempi segnato lo scopo del suo timidamente porsi inizialmente come forma di cooperazione economico-commerciale, si è rilevata nell’attualità una forma di istituzione antipoliticamente orientata, funzionale (finché dura) al servizio della anarcocapitalistica politica statunitense rimasta priva, con la fine dell’Unione Sovietica, di scopi ideologici a contenuto univocamente politico (oggi siamo di fronte, almeno in occidente, all’ideologia unica, al contempo antistatalmente politica ed antipolitica nei suoi fini ultimi, del globalismo economico).
In questo si inserisce, a contrario, il discorso del Giappone che, in una dialettica di fatto, mai riconosciuta apertamente, divide il mondo orientale estremo-asiatico (Russia compresa), che partecipa alla globalizzazione senza però rinunciare al primato della propria sovranità (e alle conseguenti scelte operative), da quello occidentale totalmente appiattito sulle dottrine anarcocapitalistiche di origine statunitense comportanti per esso gravi rischi di autodissoluzione.
E la UE di questa dissoluzione rischia di essere, proprio per i deviati principi antipolitici (rectius antisovranisti) che la informano, illusoriamente visti, come suggeriscono i principi dell’anarcocapitalismo (che gli stessi Stati Uniti si guardano bene dall’applicare nella loro integrità, specialmente dopo i grandi danni subiti dalle delocalizzazioni, specialmente in pro della Cina), come la fonte di ogni futura miglioria in ambito sociale ed economico per il proprio popolo.