
Ivrea, Cinisello, Imola, Pisa, Siena, Terni: la caduta di queste roccaforti della sinistra agli ultimi ballottaggi non può spiegarsi solo con ragioni di carattere locale. L'ultima tornata di elezioni comunali sembra piuttosto confermare in modo nitido un dato già emerso alle politiche del 4 marzo: un centrosinistra che ha fatto proprie le parole chiave dell'oligarchia globalista non solo perde vistosamente consensi tra il popolo, ma indispone il proprio tradizionale elettorato il quale, anche nei Comuni in cui è da sempre prevalente, mostra una sempre minore propensione a votare per la coalizione progressista.
In questa débâcle Matteo Renzi può averci messo molto del suo del suo – e Risso ne ha ben evidenziato le tante colpe –, accelerandone i tempi, ma la ragione del divorzio tra PD e popolo, e più in generale tra schieramento riformista e classe media, ha cause più profonde e remote, che sarebbe illusorio e ingiusto attribuire solo all'ex sindaco di Firenze, come aveva già spiegato anche Giuseppe Ladetto. Il PD paga oggi la sua subalternità al progetto globalista, concepito e gestito dai poteri economici e finanziari occidentali. Una strategia che chiedeva alla politica di non intralciare i nuovi standard messi a punto dalle tecnocrazie: monetarismo, deregulation dei mercati finanziari, precarizzazione del lavoro, smantellamento dei sistemi di welfare pubblici e privatizzazioni, abolizione delle barriere doganali per innescare una competizione al ribasso su retribuzioni e diritti tra i lavoratori, immigrazionismo – che non ha nulla a che vedere con una doverosa accoglienza di rifugiati e profughi – come sinonimo di nuova tratta degli schiavi per creare dumping salariale nei Paesi sviluppati.
L'applicazione pressoché acritica di questa agenda globalista ha prodotto una frattura sociale di proporzioni inaudite. Come ha ben focalizzato l'Eurispes, nell'arco di appena una generazione siamo passati da una società opulenta – di galbraithiana memoria – “dei due terzi” garantiti, ad una società nella quale solo un terzo può dirsi a vario titolo benestante. I restanti due terzi sono costituiti rispettivamente dal ceto medio che si impoverisce e da ceti popolari poveri o a rischio di povertà.
Questa nuova configurazione sociale dice molto sulle nuove dinamiche elettorali e nel contempo attesta che la base elettorale del PD ha subito un massiccio travaso di elettorato. A votare per il PD, ma anche per LeU e per il centrosinistra nel suo insieme, non sono più prevalentemente i ceti medi e popolari, e i tre quarti dell'economia legata alla domanda interna, i quali si sono orientati in massa verso le forze “populiste” e “sovraniste”; bensì a scegliere il PD sono in prevalenza i ceti medio-alti e quella piccola fetta di economia favorita da una globalizzazione senza sufficienti regole, che però costituiscono appena un terzo della popolazione.
Appare allora sufficientemente chiaro che un siffatto PD globalista, o “anti-sovranista” come vorrebbe Calenda, con tutto quello che si trascina dietro, dal centro o dalla sinistra, non possa più sperare di risalire la china.
Perché è l'intera narrazione che non funziona più e che fa percepire il PD come la succursale italiana di quei banchieri e paperoni che si ergono a padroni del mondo. I clintoniani, i macroniani italiani, i pupilli dell'alta finanza selezionati dall'alto per far avanzare progetti che rendono i ricchi sempre più ricchi e defraudano il popolo e i lavoratori.
La narrazione globalista è stata messa in crisi in tutto l'Occidente dal risveglio elettorale delle classi medie, che dopo tante sofferenze si sono ricordate di essere maggioritarie e dunque di poter tornare a dettare l'agenda politica nei rispettivi Paesi. Molto probabilmente il 2016, con la Brexit e l'elezione di Trump, verrà ricordato come l'equivalente per il neoliberismo globalista di ciò che il 1989 fu per il socialismo reale: l'inizio di un effetto domino che è in pieno corso.
Come ha osservato il sociologo Mauro Magatti, «dopo anni in cui l’indicazione era quella di adeguarsi agli standard dettati dalla globalizzazione, il nuovo discorso politico (non solo in Italia) prende partito per le “vittime” (…) di processi che avvantaggiano ristretti gruppi di privilegiati» (Corriere della Sera, 25/6/18).
Da questa consapevolezza, a mio avviso, devono ripartire le forze riformatrici, e fra queste il nascente progetto della Rete Bianca. Il mondo di prima, quello ante 2016, rappresentato in Italia dal PD, non c'è più e non tornerà più. La rivoluzione populista, pur con aspetti discutibili e talora beceri, ha creato un nuovo frame, una nuova cornice interpretativa alla quale i nuovi riformatori, fra cui i cattolici democratici e popolari, devono sapersi attenere se vogliono intercettare e rispondere a quella nuova domanda di difesa delle comunità che, come sostiene ancora Magatti, arriva in modo così ampio e impetuoso alla politica.
Lo schieramento riformatore, se non vuole rassegnarsi all'estinzione, deve dimostrare di esser capace di cambiare le proprie idee guida e le priorità della sua agenda politica, di abbandonare le parole d'ordine dell'élite globalista che hanno provocato profonda insofferenza presso il proprio elettorato e sancito un divorzio con il popolo che ha del surreale per forze che si definiscono popolari.
Mi auguro che il contributo della Rete Bianca alla costruzione di un nuovo centrosinistra sia soprattutto quello di rimarcare la necessità di ripartire dalla Costituzione, dalla centralità del lavoro, dell'intervento dello stato in economia, come condizioni irrinunciabili per il rafforzamento della democrazia.
Il centrosinistra, infatti, per esistere necessita di essere keynesiano e nazionale, altrimenti è ancora destra camuffata. La sfida è apertissima.
In questa débâcle Matteo Renzi può averci messo molto del suo del suo – e Risso ne ha ben evidenziato le tante colpe –, accelerandone i tempi, ma la ragione del divorzio tra PD e popolo, e più in generale tra schieramento riformista e classe media, ha cause più profonde e remote, che sarebbe illusorio e ingiusto attribuire solo all'ex sindaco di Firenze, come aveva già spiegato anche Giuseppe Ladetto. Il PD paga oggi la sua subalternità al progetto globalista, concepito e gestito dai poteri economici e finanziari occidentali. Una strategia che chiedeva alla politica di non intralciare i nuovi standard messi a punto dalle tecnocrazie: monetarismo, deregulation dei mercati finanziari, precarizzazione del lavoro, smantellamento dei sistemi di welfare pubblici e privatizzazioni, abolizione delle barriere doganali per innescare una competizione al ribasso su retribuzioni e diritti tra i lavoratori, immigrazionismo – che non ha nulla a che vedere con una doverosa accoglienza di rifugiati e profughi – come sinonimo di nuova tratta degli schiavi per creare dumping salariale nei Paesi sviluppati.
L'applicazione pressoché acritica di questa agenda globalista ha prodotto una frattura sociale di proporzioni inaudite. Come ha ben focalizzato l'Eurispes, nell'arco di appena una generazione siamo passati da una società opulenta – di galbraithiana memoria – “dei due terzi” garantiti, ad una società nella quale solo un terzo può dirsi a vario titolo benestante. I restanti due terzi sono costituiti rispettivamente dal ceto medio che si impoverisce e da ceti popolari poveri o a rischio di povertà.
Questa nuova configurazione sociale dice molto sulle nuove dinamiche elettorali e nel contempo attesta che la base elettorale del PD ha subito un massiccio travaso di elettorato. A votare per il PD, ma anche per LeU e per il centrosinistra nel suo insieme, non sono più prevalentemente i ceti medi e popolari, e i tre quarti dell'economia legata alla domanda interna, i quali si sono orientati in massa verso le forze “populiste” e “sovraniste”; bensì a scegliere il PD sono in prevalenza i ceti medio-alti e quella piccola fetta di economia favorita da una globalizzazione senza sufficienti regole, che però costituiscono appena un terzo della popolazione.
Appare allora sufficientemente chiaro che un siffatto PD globalista, o “anti-sovranista” come vorrebbe Calenda, con tutto quello che si trascina dietro, dal centro o dalla sinistra, non possa più sperare di risalire la china.
Perché è l'intera narrazione che non funziona più e che fa percepire il PD come la succursale italiana di quei banchieri e paperoni che si ergono a padroni del mondo. I clintoniani, i macroniani italiani, i pupilli dell'alta finanza selezionati dall'alto per far avanzare progetti che rendono i ricchi sempre più ricchi e defraudano il popolo e i lavoratori.
La narrazione globalista è stata messa in crisi in tutto l'Occidente dal risveglio elettorale delle classi medie, che dopo tante sofferenze si sono ricordate di essere maggioritarie e dunque di poter tornare a dettare l'agenda politica nei rispettivi Paesi. Molto probabilmente il 2016, con la Brexit e l'elezione di Trump, verrà ricordato come l'equivalente per il neoliberismo globalista di ciò che il 1989 fu per il socialismo reale: l'inizio di un effetto domino che è in pieno corso.
Come ha osservato il sociologo Mauro Magatti, «dopo anni in cui l’indicazione era quella di adeguarsi agli standard dettati dalla globalizzazione, il nuovo discorso politico (non solo in Italia) prende partito per le “vittime” (…) di processi che avvantaggiano ristretti gruppi di privilegiati» (Corriere della Sera, 25/6/18).
Da questa consapevolezza, a mio avviso, devono ripartire le forze riformatrici, e fra queste il nascente progetto della Rete Bianca. Il mondo di prima, quello ante 2016, rappresentato in Italia dal PD, non c'è più e non tornerà più. La rivoluzione populista, pur con aspetti discutibili e talora beceri, ha creato un nuovo frame, una nuova cornice interpretativa alla quale i nuovi riformatori, fra cui i cattolici democratici e popolari, devono sapersi attenere se vogliono intercettare e rispondere a quella nuova domanda di difesa delle comunità che, come sostiene ancora Magatti, arriva in modo così ampio e impetuoso alla politica.
Lo schieramento riformatore, se non vuole rassegnarsi all'estinzione, deve dimostrare di esser capace di cambiare le proprie idee guida e le priorità della sua agenda politica, di abbandonare le parole d'ordine dell'élite globalista che hanno provocato profonda insofferenza presso il proprio elettorato e sancito un divorzio con il popolo che ha del surreale per forze che si definiscono popolari.
Mi auguro che il contributo della Rete Bianca alla costruzione di un nuovo centrosinistra sia soprattutto quello di rimarcare la necessità di ripartire dalla Costituzione, dalla centralità del lavoro, dell'intervento dello stato in economia, come condizioni irrinunciabili per il rafforzamento della democrazia.
Il centrosinistra, infatti, per esistere necessita di essere keynesiano e nazionale, altrimenti è ancora destra camuffata. La sfida è apertissima.
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