PD, dall’angolo al buco nero



Antonio Labanca    30 Maggio 2018       0

Questo articolo, inviatoci a metà marzo, non è mai arrivato a causa dei problemi tecnici che ci hanno di fatto bloccato per alcune settimane in quel periodo, prima di passare alla nuova piattaforma web. L’autore lo ripropone ora, intatto, a conferma di quanto sia stata negativa la strategia renziana di isolamento del PD nei due mesi di infruttuose trattative per formare un governo.

 

Se c'è qualcuno dentro al PD disposto ad ascoltare voci amiche, prenda sul serio l'idea che la chiusura a qualsiasi ipotesi di sostegno a un governo che non può più vederlo protagonista è un percorso che porta all'autoliquidazione del partito stesso.

Prima di muovere considerazioni sull'impatto che questa presa di posizione registra nell'opinione degli elettori, è sufficiente richiamare la realtà dei numeri. Se anche non formeranno alcun governo insieme, Lega e Movimento5 Stelle hanno la possibilità di varare la prossima legge elettorale in assoluta scioltezza senza avvalersi di alcun sostegno del Partito Democratico o di altre formazioni minori (a meno di spaccature interne alla coalizione di centrodestra). E una legge elettorale sarebbe la nemesi storica in quanto a contenuti e a modalità di approvazione dell'attuale legge elettorale. A meno di dimenticare che il “rosatellum” è stato approvato a colpi di voti di fiducia imposti dalla maggioranza, con che faccia si potrebbe contestare a Salvini e a Di Maio di imporre a loro volta una regolamentazione del voto che assuma il principio del premio a favore di chi superi un certo livello di consensi? Basta che questo livello sia fissato a un ragionevole 33,3% ed ecco che o l'una o l'altra forza in campo, entrambe giudicate non compatibili col PD, risulterebbe vincitrice con ulteriore abbassamento della quota di presenza dei “dem” in Parlamento.

Un partito a forte vocazione governativa può resistere questa legislatura e la prossima confinato in un angolo? Saltiamo le considerazioni su come alla fine si comporterebbero i singoli eletti del PD, condannati in tal caso a rimanere alla finestra per almeno un cambio generazionale; pensiamo a come potranno muoversi i governi locali che ancora resistono in mano a questo partito; pensiamo all'establishment che gestisce imprese di ogni genere che si troveranno costrette a cambiare i referenti politici.

L'isolamento che Matteo Renzi ha lasciato come eredità vincolante all'attuale gruppo dirigente del partito sembra essere l'ultima tappa di un intervento scientifico di demolizione dell'idea e della struttura della forza politica nata per fusione a freddo delle anime progressiste del Paese. Dopo l'esplosione che ha frantumato una stella, e disperso il suo magma, ciò che rimane implode e scompare come un buco nero.

E poi c'è la questione “morale” di un partito che se ha davvero a cuore l'Italia si prodiga di tentativi di costruire nuove soluzioni anche senza godere del privilegio di essere il primo, e rifugge dal mantra che si sta auto-propinando di essere stato messo da parte. L'interpretazione del voto che porta a questa conclusione è corrispondente all'incapacità di ascolto di ciò che la gente ha voluto esprimere il 4 marzo. Nessuno ha deciso di mettere all'opposizione il PD: semmai si è voluto compiere la purificazione delle intenzioni e della prassi che negli ultimi anni hanno dato del partito il sentore di inesorabile esecutore dei diktat della finanza, di quelle politiche innominabili che la destra ha volentieri ceduto alla sinistra, dopo aver tentato di realizzarle in proprio, di attenzione ai diritti civili elitari che non includono necessariamente il diritto alla qualità della vita distribuita fra tutti.

Può sopportare il “popolo della sinistra” la conclusione che il partito sia alla ricerca di una rivincita pur sapendo che il “comitato organizzatore” prevede un torneo a eliminazione diretta? che la sua forza parlamentare intenda rimanere cieca di fronte al fatto di essere determinate per la nascita di un governo nel quale potrebbe sì giocare le competenze rivendicate di fronte ai “nuovi” delle istituzioni, e colorare a tinte forti di idealità una strategia politica che si limita a decidere sulla base di tecnicismi?

Può un partito pensare alla prospettiva di poter dire alle prossime elezioni (fra 5 mesi o 5 anni) di aver contribuito alla governabilità in un momento di passaggio delicato sul fronte della trasformazione dell'Unione europea e su quello delle dinamiche sempre più preoccupanti delle relazioni politiche e commerciali nel mondo?

L'alternativa è pensare che dall'ulteriore aggravamento delle crisi interne e internazionali possa nascere una sorta di “nostalgia” per una forza politica che certamente potrà raccogliere consensi dagli errori degli altri, ma intanto si troverà in mano un'Italia e un'Europa ancora più esposte quanto a paura della globalizzazione nelle sue diverse forme e a smantellamento dello Stato sociale.

La personalizzazione dei partiti sempre più inscindibili dal “volto” di un leader carismatico è un fenomeno intrinsecamente opposto all'idea di democrazia interna e nella gestione del bene pubblico. Ma è ancora più grave se l'ombra lunga del suo fondatore o del suo monarca impedisse di riportare alla luce la realtà anche dopo il suo regno, e i suoi fedeli seguaci si sentissero in dovere di tenere ferma la barra di navigazione anche se mena verso una tempesta.


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