È passato più di un mese dalla consultazione elettorale. I risultati, con il crollo del PD solo in parte previsto, con l’inatteso fallimento di Liberi e Uguali, e il flop berlusconiano, sono stati oggetto di vari commenti da parte dei media, che presto hanno preferito dedicare la loro attenzione allo scenario nuovo che si è configurato con il successo del Movimento 5 Stelle e della Lega, facendo ipotesi sugli sviluppi della situazione.
A mio avviso, il punto di partenza di ogni analisi dei fatti e di valutazione della nuova situazione deve partire dall’esame delle ragioni della sconfitta dell’intera sinistra, avendo presente che non si tratta di un fenomeno solo italiano perché riveste un andamento mondiale.
Ho sentito che c’è ancora chi assegna al solo Renzi la responsabilità di quanto accaduto. Domenico De Masi (sociologo simpatizzante per il M5S), in un dibattito televisivo, analizzando le ragioni della sconfitta del PD, lamentava che il partito avesse abbandonato i progetti riformisti e il suo elettorato tradizionale per diventare liberista, imputando tale trasformazione a Renzi. Ma bisogna essere ciechi per non vedere quanto è successo e succede in Europa e non rendersi conto che un tale cammino è iniziato a partire dagli anni Novanta e proseguito fino ad oggi con Blair, Schroeder, Gonzales, Zapatero, Rocard, Hollande. In Italia, a mettere in opera le liberalizzazioni e a liquidare l'industria pubblica, hanno iniziato Andreatta e Prodi, ha continuato D'Alema fino a giungere alle “lenzuolate” di Bersani; a teorizzare come progressista la nuova linea economica liberale, sono stati tecnici eletti nello schieramento di centrosinistra, come Franco De Benedetti, Enrico Morando, Nicola Rossi (oggi fautore della flat-tax).
Luciano Violante, in un'intervista su “La Stampa” del 25 marzo scorso, ha fatto alcune affermazioni che fotografano la situazione: “Oggi, Lega e M5S hanno, talvolta in forma discutibile, parlato al popolo rappresentando interessi specifici delle persone: migranti, reddito, tasse. I vecchi partiti hanno puntato sulla rappresentanza per appartenenze (…). Lega e M5S sono interclassisti; il PD è diventato prevalentemente il partito della borghesia, più media che piccola. Anche se ha fatto alcune buone politiche sociali, sembra aver puntato più sui diritti di libertà tipicamente borghesi come unioni civili e fine vita. (…) La sinistra è in crisi ovunque. Dopo 1989, non si è chiesta come difendere l'uguaglianza nel mondo globalizzato. Ha preferito il politicamente corretto all'eticamente giusto. La diseguaglianza viene affrontata dalla destra, pur senza nominarla”.
Chiediamoci il perché di queste scelte fallimentari della sinistra in rottura con il suo passato.
Le sinistre e i riformisti, con l'annunciata “fine della storia”, hanno promosso con entusiasmo il mercato globale, e così facendo non hanno trovato più spazio per politiche alternative al liberismo più spinto: ormai è il mercato, con una spietata concorrenza, a dettare legge. La sinistra ha scelto di lasciare al libero mercato e al grande capitale il compito di produrre ricchezza, riservandosi quello di redistribuirla a favore delle classi popolari. Ma questa distinzione dei compiti non funziona. Per vincere, o semplicemente per sopravvivere, nel mercato globale, tutto quanto proviene dagli incrementi di produttività deve essere destinato agli investimenti, alla riduzione dei costi, all'abbassamento dei prezzi.
È questa la ragione per cui, malgrado la crescita della produttività, gli orari di lavoro non si riducono, i salari non crescono o crescono poco, ci sono sempre meno soldi per il welfare. Già oggi, con l'entrata in scena dei Paesi di recente sviluppo (non è più il caso di chiamarli Paesi in via di sviluppo), il quadro è cambiato negativamente per noi in tema di risorse. L'Europa ha il 6% della popolazione del pianeta e spende per il welfare una cifra pari al 50% di quanto a ciò è destinato nel mondo. Il presidente della BCE Mario Draghi ne ha preso atto quando ha affermato che il modello sociale europeo è superato.
Per porre rimedio a questa situazione, si invocano politiche fiscali, con prelievi sugli alti redditi, atte a sostenere la spesa sociale, ma il capitalismo finanziario non conosce frontiere e le può attraversare indisturbato rendendo gli Stati nazionali incapaci di sottoporlo ad alcun controllo, a regole e a prelievi fiscali significativi. Così, è venuto a mancare il terreno sotto i piedi non solo alla sinistra, ma a tutti i riformisti: senza possibilità di redistribuzione e di spesa sociale non sanno più che fare e che dire.
Ma la rappresentazione non finisce qui. Ci sono poi le velleità ambientaliste di una sinistra che tuttavia chiude gli occhi sui guasti e sull'impatto climatico di uno sviluppo che pretende sia “sostenibile”.
Ciò che la sinistra dovrebbe capire è che le ricadute negative della globalizzazione non dipendono solo da una non equa ripartizione dei frutti prodotti, perché i guasti da essa originati (distruzione dell’ambiente, modificazioni climatiche, disoccupazione strutturale, crescenti squilibri, migrazioni incontrollate, individualismo estremo e sgretolamento dei legami sociali, ecc.) sono principalmente imputabili alle modalità operative e alle finalità di quel “turbocapitalismo” che ha prodotto il mercato globale.
La sinistra ha di fronte un'alternativa: continuare sulla stessa strada e scomparire come tale oppure rimettere in discussione l'intero bagaglio di idee, valori e teorie riconducibile a quella opzione “liberal” e “mondialista” fatta a partire dagli anni Novanta.
Nella “sinistra-sinistra”, c'è chi in Europa intravede alternative in sintonia con una sia pur vaga prospettiva socialista: Corbyn, viene detto, ha sempre più seguito nell'opinione pubblica, non solo britannica. Già, ma se Corbyn non mette in discussione la società aperta e il relativo mercato, non ha alcuna possibilità di dare seguito a una proposta che si richiama, pur aggiornandola, alla linea dei laburisti del secondo dopoguerra. Come ha scritto Keynes, per poter fare esperimenti in vista della ideale repubblica sociale che si desidera realizzare, bisogna essere il più svincolati possibile dalle interferenze determinate dai mutamenti economici che si dovessero verificare altrove.
Nel mercato globale, non c'è posto per le sperimentazioni politiche.
Ci sono inoltre coloro che ci parlano di una diversa globalizzazione.
Vorrebbero una globalizzazione a compartimenti stagni: sì alla globalizzazione dei diritti, no a quella dei capitali; sì alla circolazione degli essere umani, no a quella delle imprese che delocalizzano, e via dicendo. Discorso fuori dalla realtà, perché la circolazione richiesta, o imposta, dal mercato globale riguarda uomini, merci, imprese e capitali.
Altri auspicano una globalizzazione “buona”, governata da regole e da organismi sovrannazionali, ma è un'illusione. Il mercato globale, per la sua dimensione e complessità, non è governabile, e meno che mai governabile democraticamente. Ricordiamoci degli interrogativi posti da Aristotele: “Qual è il numero di cittadini compatibile con il buon governo della polis?”. “Quale la giusta dimensione di uno stato retto da una democrazia?”. Oltre una certa dimensione, c'è spazio, in crescendo, solo per le oligarchie, per un dispotismo tecnocratico o, al limite, per il caos. E in questa ultima eventualità, come scrive Federico Rampini in L'età del caos, ci saranno, e già ci sono, ulteriori nuove opportunità per i predatori, gli spregiudicati, i cinici.
Dei 5 Stelle che dire? Sono i vincitori della competizione perché il primo partito e perché, nati da poco, sono cresciuti malgrado avessero tutti contro. Sorprende vedere come il successo modifichi l'atteggiamento di molta parte degli osservatori (media, intellettuali, imprenditori ed esponenti del mondo economico). Fino a ieri i grillini erano il peggio (gente senza arte né parte, incapaci, ingenui manovrati dalla Casaleggio Associati); oggi sono l'unico argine alle destre, sono i portavoce e i rappresentati dei giovani senza lavoro, dei precari, della gente del Sud. Addirittura c'è chi sostiene che i 5 Stelle possano sostituire le sinistre tradizionali in un Paese destinato a ritornare bipolare (M5S contro Lega).
Ora, posso capire un cambiamento di giudizio in quanti sostengono che i grillini stiano maturando, stiano gradualmente trasformandosi in partito cercando di dotarsi di gruppi dirigenti e di formare quadri, ma cosa significa considerarli la “nuova sinistra”? Abbiamo visto che in Europa quanti si richiamano alla sinistra sono in crisi, non perché siano diventati brutti e cattivi per aver frequentato le stanze del potere, ma perché i progetti riformisti che sono la loro ragione di esistenza non sono più sostenibili nel contesto attuale. Se i Cinque stelle prendessero il loro posto, si troverebbero nella stessa situazione: non bastano delle facce nuove e non basta cancellare i vitalizi per rilanciare tali politiche.
La destra non sta molto meglio della sinistra. Oggi non ha più il monopolio del liberismo, e la sua componente maggiormente ad esso ancorata è in caduta. Da anni sentiamo invocare la creazione, anche in Italia, di una destra liberale, moderata, europea. Ma il ceto medio che ne dovrebbe essere il protagonista è in declino in tutta Europa, è arrabbiato, vuole essere difeso proprio da quel libero mercato senza barriere che lo impoverisce e lo declassa.
Si fa spazio una destra alternativa, sovranista, non ostile a un ruolo dello Stato nell'economia, una destra che ha fatto propri alcuni connotati del populismo (la diffidenza verso le élite, verso il mondo della finanza) e che guarda, cercando di raccoglierne i consensi, alle cosiddette “vittime” della globalizzazione. Ma di quest'ultima, non riesce a vedere l'insieme dei guasti prodotti (a partire da quelli ambientali), rimane saldamente ancorata al mito della crescita e non si sottrae all'influenza di quel pensiero unico neoliberale che ha inciso profondamente sulla mentalità corrente.
Ora, per tutti, il problema è lo stesso. Chi ritiene che non ci sia alternativa alla globalizzazione, ne deve accettare le conseguenze e, qualunque etichetta assuma (destra, sinistra o populisti), non potrà far altro che continuare a operare nelle logiche neoliberali con tutto quanto ne segue.
Che fare? Sul terreno propriamente politico-partitico, al momento non vedo protagonisti capaci di tracciare nuovi percorsi. Ogni sostanziale mutamento del quadro implica tempi lunghi e richiede una rivoluzione culturale.
Tuttavia, guardandoci attorno, possiamo scoprire nella società delle cose positive. C'è il volontariato messo in atto da persone di buona volontà che agiscono in mezzo alla gente comune cercando di rispondere alle necessità più urgenti; ci sono persone che si mettono insieme in un ottica di cooperazione, per affrontare un presente e un futuro dai tratti inquietanti, prefigurando nuove comunità e un nuovo modo di vivere.
Un certo contributo al rinnovamento della politica lo possono dare anche le associazioni politico-culturali (quando non semplici paraventi di partiti o correnti di partito). Ritengo che siano le sole in grado di ripartire dall'ABC del discorso politico, cominciando dalle parole e dai concetti che occorre ridefinire perché oggi il dibattito pubblico sembra un dialogo fra sordi o fra persone che parlano lingue differenti, dal quale non può nascere nulla di costruttivo.
A mio avviso, il punto di partenza di ogni analisi dei fatti e di valutazione della nuova situazione deve partire dall’esame delle ragioni della sconfitta dell’intera sinistra, avendo presente che non si tratta di un fenomeno solo italiano perché riveste un andamento mondiale.
Ho sentito che c’è ancora chi assegna al solo Renzi la responsabilità di quanto accaduto. Domenico De Masi (sociologo simpatizzante per il M5S), in un dibattito televisivo, analizzando le ragioni della sconfitta del PD, lamentava che il partito avesse abbandonato i progetti riformisti e il suo elettorato tradizionale per diventare liberista, imputando tale trasformazione a Renzi. Ma bisogna essere ciechi per non vedere quanto è successo e succede in Europa e non rendersi conto che un tale cammino è iniziato a partire dagli anni Novanta e proseguito fino ad oggi con Blair, Schroeder, Gonzales, Zapatero, Rocard, Hollande. In Italia, a mettere in opera le liberalizzazioni e a liquidare l'industria pubblica, hanno iniziato Andreatta e Prodi, ha continuato D'Alema fino a giungere alle “lenzuolate” di Bersani; a teorizzare come progressista la nuova linea economica liberale, sono stati tecnici eletti nello schieramento di centrosinistra, come Franco De Benedetti, Enrico Morando, Nicola Rossi (oggi fautore della flat-tax).
Luciano Violante, in un'intervista su “La Stampa” del 25 marzo scorso, ha fatto alcune affermazioni che fotografano la situazione: “Oggi, Lega e M5S hanno, talvolta in forma discutibile, parlato al popolo rappresentando interessi specifici delle persone: migranti, reddito, tasse. I vecchi partiti hanno puntato sulla rappresentanza per appartenenze (…). Lega e M5S sono interclassisti; il PD è diventato prevalentemente il partito della borghesia, più media che piccola. Anche se ha fatto alcune buone politiche sociali, sembra aver puntato più sui diritti di libertà tipicamente borghesi come unioni civili e fine vita. (…) La sinistra è in crisi ovunque. Dopo 1989, non si è chiesta come difendere l'uguaglianza nel mondo globalizzato. Ha preferito il politicamente corretto all'eticamente giusto. La diseguaglianza viene affrontata dalla destra, pur senza nominarla”.
Chiediamoci il perché di queste scelte fallimentari della sinistra in rottura con il suo passato.
Le sinistre e i riformisti, con l'annunciata “fine della storia”, hanno promosso con entusiasmo il mercato globale, e così facendo non hanno trovato più spazio per politiche alternative al liberismo più spinto: ormai è il mercato, con una spietata concorrenza, a dettare legge. La sinistra ha scelto di lasciare al libero mercato e al grande capitale il compito di produrre ricchezza, riservandosi quello di redistribuirla a favore delle classi popolari. Ma questa distinzione dei compiti non funziona. Per vincere, o semplicemente per sopravvivere, nel mercato globale, tutto quanto proviene dagli incrementi di produttività deve essere destinato agli investimenti, alla riduzione dei costi, all'abbassamento dei prezzi.
È questa la ragione per cui, malgrado la crescita della produttività, gli orari di lavoro non si riducono, i salari non crescono o crescono poco, ci sono sempre meno soldi per il welfare. Già oggi, con l'entrata in scena dei Paesi di recente sviluppo (non è più il caso di chiamarli Paesi in via di sviluppo), il quadro è cambiato negativamente per noi in tema di risorse. L'Europa ha il 6% della popolazione del pianeta e spende per il welfare una cifra pari al 50% di quanto a ciò è destinato nel mondo. Il presidente della BCE Mario Draghi ne ha preso atto quando ha affermato che il modello sociale europeo è superato.
Per porre rimedio a questa situazione, si invocano politiche fiscali, con prelievi sugli alti redditi, atte a sostenere la spesa sociale, ma il capitalismo finanziario non conosce frontiere e le può attraversare indisturbato rendendo gli Stati nazionali incapaci di sottoporlo ad alcun controllo, a regole e a prelievi fiscali significativi. Così, è venuto a mancare il terreno sotto i piedi non solo alla sinistra, ma a tutti i riformisti: senza possibilità di redistribuzione e di spesa sociale non sanno più che fare e che dire.
Ma la rappresentazione non finisce qui. Ci sono poi le velleità ambientaliste di una sinistra che tuttavia chiude gli occhi sui guasti e sull'impatto climatico di uno sviluppo che pretende sia “sostenibile”.
Ciò che la sinistra dovrebbe capire è che le ricadute negative della globalizzazione non dipendono solo da una non equa ripartizione dei frutti prodotti, perché i guasti da essa originati (distruzione dell’ambiente, modificazioni climatiche, disoccupazione strutturale, crescenti squilibri, migrazioni incontrollate, individualismo estremo e sgretolamento dei legami sociali, ecc.) sono principalmente imputabili alle modalità operative e alle finalità di quel “turbocapitalismo” che ha prodotto il mercato globale.
La sinistra ha di fronte un'alternativa: continuare sulla stessa strada e scomparire come tale oppure rimettere in discussione l'intero bagaglio di idee, valori e teorie riconducibile a quella opzione “liberal” e “mondialista” fatta a partire dagli anni Novanta.
Nella “sinistra-sinistra”, c'è chi in Europa intravede alternative in sintonia con una sia pur vaga prospettiva socialista: Corbyn, viene detto, ha sempre più seguito nell'opinione pubblica, non solo britannica. Già, ma se Corbyn non mette in discussione la società aperta e il relativo mercato, non ha alcuna possibilità di dare seguito a una proposta che si richiama, pur aggiornandola, alla linea dei laburisti del secondo dopoguerra. Come ha scritto Keynes, per poter fare esperimenti in vista della ideale repubblica sociale che si desidera realizzare, bisogna essere il più svincolati possibile dalle interferenze determinate dai mutamenti economici che si dovessero verificare altrove.
Nel mercato globale, non c'è posto per le sperimentazioni politiche.
Ci sono inoltre coloro che ci parlano di una diversa globalizzazione.
Vorrebbero una globalizzazione a compartimenti stagni: sì alla globalizzazione dei diritti, no a quella dei capitali; sì alla circolazione degli essere umani, no a quella delle imprese che delocalizzano, e via dicendo. Discorso fuori dalla realtà, perché la circolazione richiesta, o imposta, dal mercato globale riguarda uomini, merci, imprese e capitali.
Altri auspicano una globalizzazione “buona”, governata da regole e da organismi sovrannazionali, ma è un'illusione. Il mercato globale, per la sua dimensione e complessità, non è governabile, e meno che mai governabile democraticamente. Ricordiamoci degli interrogativi posti da Aristotele: “Qual è il numero di cittadini compatibile con il buon governo della polis?”. “Quale la giusta dimensione di uno stato retto da una democrazia?”. Oltre una certa dimensione, c'è spazio, in crescendo, solo per le oligarchie, per un dispotismo tecnocratico o, al limite, per il caos. E in questa ultima eventualità, come scrive Federico Rampini in L'età del caos, ci saranno, e già ci sono, ulteriori nuove opportunità per i predatori, gli spregiudicati, i cinici.
Dei 5 Stelle che dire? Sono i vincitori della competizione perché il primo partito e perché, nati da poco, sono cresciuti malgrado avessero tutti contro. Sorprende vedere come il successo modifichi l'atteggiamento di molta parte degli osservatori (media, intellettuali, imprenditori ed esponenti del mondo economico). Fino a ieri i grillini erano il peggio (gente senza arte né parte, incapaci, ingenui manovrati dalla Casaleggio Associati); oggi sono l'unico argine alle destre, sono i portavoce e i rappresentati dei giovani senza lavoro, dei precari, della gente del Sud. Addirittura c'è chi sostiene che i 5 Stelle possano sostituire le sinistre tradizionali in un Paese destinato a ritornare bipolare (M5S contro Lega).
Ora, posso capire un cambiamento di giudizio in quanti sostengono che i grillini stiano maturando, stiano gradualmente trasformandosi in partito cercando di dotarsi di gruppi dirigenti e di formare quadri, ma cosa significa considerarli la “nuova sinistra”? Abbiamo visto che in Europa quanti si richiamano alla sinistra sono in crisi, non perché siano diventati brutti e cattivi per aver frequentato le stanze del potere, ma perché i progetti riformisti che sono la loro ragione di esistenza non sono più sostenibili nel contesto attuale. Se i Cinque stelle prendessero il loro posto, si troverebbero nella stessa situazione: non bastano delle facce nuove e non basta cancellare i vitalizi per rilanciare tali politiche.
La destra non sta molto meglio della sinistra. Oggi non ha più il monopolio del liberismo, e la sua componente maggiormente ad esso ancorata è in caduta. Da anni sentiamo invocare la creazione, anche in Italia, di una destra liberale, moderata, europea. Ma il ceto medio che ne dovrebbe essere il protagonista è in declino in tutta Europa, è arrabbiato, vuole essere difeso proprio da quel libero mercato senza barriere che lo impoverisce e lo declassa.
Si fa spazio una destra alternativa, sovranista, non ostile a un ruolo dello Stato nell'economia, una destra che ha fatto propri alcuni connotati del populismo (la diffidenza verso le élite, verso il mondo della finanza) e che guarda, cercando di raccoglierne i consensi, alle cosiddette “vittime” della globalizzazione. Ma di quest'ultima, non riesce a vedere l'insieme dei guasti prodotti (a partire da quelli ambientali), rimane saldamente ancorata al mito della crescita e non si sottrae all'influenza di quel pensiero unico neoliberale che ha inciso profondamente sulla mentalità corrente.
Ora, per tutti, il problema è lo stesso. Chi ritiene che non ci sia alternativa alla globalizzazione, ne deve accettare le conseguenze e, qualunque etichetta assuma (destra, sinistra o populisti), non potrà far altro che continuare a operare nelle logiche neoliberali con tutto quanto ne segue.
Che fare? Sul terreno propriamente politico-partitico, al momento non vedo protagonisti capaci di tracciare nuovi percorsi. Ogni sostanziale mutamento del quadro implica tempi lunghi e richiede una rivoluzione culturale.
Tuttavia, guardandoci attorno, possiamo scoprire nella società delle cose positive. C'è il volontariato messo in atto da persone di buona volontà che agiscono in mezzo alla gente comune cercando di rispondere alle necessità più urgenti; ci sono persone che si mettono insieme in un ottica di cooperazione, per affrontare un presente e un futuro dai tratti inquietanti, prefigurando nuove comunità e un nuovo modo di vivere.
Un certo contributo al rinnovamento della politica lo possono dare anche le associazioni politico-culturali (quando non semplici paraventi di partiti o correnti di partito). Ritengo che siano le sole in grado di ripartire dall'ABC del discorso politico, cominciando dalle parole e dai concetti che occorre ridefinire perché oggi il dibattito pubblico sembra un dialogo fra sordi o fra persone che parlano lingue differenti, dal quale non può nascere nulla di costruttivo.
Analisi molto condivisibile. La sinistra ha finito per stare dalla parte sbagliata del confronto sociale – dalla parte della speculazione finanziaria internazionale anziché dalla parte degli interessi dei ceti popolari e lavoratori e dell’economia reale – e per stare dalla parte sbagliata della storia – dalla parte di coloro che nel trentennio successivo alla caduta del muro di Berlino non hanno fatto altro che destabilizzare gli stati e creare nuove guerre – Jugoslavia, Caucaso, Ucraina, Grande Medio Oriente – e che puntano a breve termine a far scoppiare un nuovo conflitto mondiale prima che la superiorità dell’Asia diventi incontrastabile.
Occorre ripartire con questa consapevolezza. Essere di sinistra, riformatori, popolari ed essere a favore di politiche economiche dove viene prima la persona che il denaro, lo sviluppo che il pareggio di bilancio, dove vengono prima la pace, il rispetto della Costituzione e del diritto internazionale che le alleanze internazionali: è chiedere troppo?