Di Maio-Salvini, matrimonio possibile?



Alessandro Risso    6 Aprile 2018       1

Un amico assicuratore, amministratore locale ed ex segretario del PD, si reca pochi giorni fa da un cliente, titolare di una piccola azienda nella periferia di Torino. I due si conoscono da tempo e condividono molti giudizi sulla politica. L’imprenditore gli confida di aver ancora votato PD, anche se poco convinto, poi lo invita a scendere nell’officina per ascoltare i suoi dipendenti sulle ultime, fresche elezioni: i più giovani dichiarano senza problemi di aver votato 5 Stelle, “perché così cambia qualcosa”, mentre i più anziani dicono di aver votato Lega “perché Salvini ci toglie la legge Fornero e possiamo andare in pensione prima”. Nessuno in quella ventina di operai ha votato PD o Liberi e Uguali.

Questo aneddoto non ha valore statistico, ma aiuta a capire il responso elettorale del 4 marzo. Due terzi dell’elettorato ha votato per cambiare lo stato delle cose. E avvalora in gran parte la tesi che avevamo sostenuto: stiamo andando verso un nuovo bipolarismo, con la radicalizzazione del voto tra il polo della conservazione – il centrodestra – e quello del cambiamento, i 5 Stelle. Gli elettori non si sono sottratti a questa scelta: il temuto alto astensionismo non c’è stato e le indicazioni dal voto sono state nette. Chi non ha posizioni da difendere e spera in un cambiamento che porti più eguaglianza, più giustizia sociale, maggiore attenzione a chi fa fatica perché non ha lavoro o è impantanato nel precariato, ha votato il movimento di Grillo. Il partito di Renzi, nominalmente di centrosinistra ma autore di una serie di scelte neoliberiste che lo hanno equiparato a una Forza Italia 2.0, ha perso gran parte dell’elettorato popolare. Il crollo, in meno di quattro anni, dal tanto decantato 41% alle europee 2014 al 18% del 4 marzo scorso parla da solo: in valore assoluto sono più di 5 milioni di voti in meno. Se poi vogliamo paragonare elezioni omologhe, Bersani con la sua “non vittoria” nel 2013 aveva comunque ottenuto il 25% e oltre 2 milioni e mezzo di voti in più rispetto al tracollo di Renzi.

Liberi e Uguali, che si proponeva di intercettare questo elettorato di sinistra in fuga dal PD, ha fallito l’obiettivo, non riuscendo a uscire dallo schema di ennesima ridotta della sinistra di apparato post PCI. Un’immagine ormai logora e respingente per coloro che chiedono cambiamenti nelle politiche e nelle facce. Lo ha persino capito D’Alema, che intervistato dal Corriere è arrivato ad ammettere di essersi sbagliato nell’analisi e nel candidarsi: del senno di poi…

La gran massa di voti in fuga dalla sinistra, tolti un paio di punti percentuali di aumentata astensione, sono andati ai 5 Stelle, che hanno incrementato di 2 milioni di voti il notevolissimo risultato del 2013 (dal 25 al 33%). Contemporaneamente, ci dicono gli studi sui flussi elettorali dell’Istituto Cattaneo, i grillini hanno perso voti verso la Lega, specie al Nord. In un certo senso, anche se i leader del Movimento continuano a considerarsi post-ideologici, né di destra né di sinistra, le elezioni hanno reso più omogeneo l’elettorato grillino in una dimensione che possiamo per comodità definire “di sinistra”.

Sulla destra la Lega non solo ha nettamente vinto la competizione interna con Forza Italia per la supremazia nella coalizione, ma ha anche pescato da Fratelli d’Italia e raccolto gran parte del voto che si sarebbe potuto indirizzare sui partiti neofascisti, rimasti a percentuali insignificanti. Quindi potremmo essere confermati nella tendenza a un nuovo bipolarismo destra-sinistra, non più nel binomio Forza Italia-PD, ma nel nuovo formato Lega-M5S. Se osserviamo da questa prospettiva, un governo Di Maio-Salvini è impensabile, salvo un accordo di breve termine per approvare una nuova legge elettorale che assicuri al vincitore del loro prossimo duello la maggioranza per governare.

Esiste però una seconda chiave di lettura, un altro bipolarismo da considerare: quello tra cambiamento e conservazione. Due terzi degli italiani, votando 5 Stelle e Lega, hanno espresso una generica, anche contraddittoria, ma chiara volontà di cambiare. Cambiare politiche, facce, interessi rispetto a quelli espressi e tutelati da Berlusconi e dal partito di Renzi.

Visto da questa prospettiva, il matrimonio 5 Stelle-Lega potrebbe anche realizzarsi, malgrado le tante differenze programmatiche, prima fra tutte la coesistenza di flat tax, abolizione della legge Fornero e reddito di cittadinanza. Sarebbe senz’altro un rapporto teso, conflittuale e a rischio di rottura, ma il fascino del governo potrebbe anche indurre i due “fidanzati” a fare il grande passo.


1 Commento

  1. Il lucidissimo articolo di Risso lascia intendere che un’intesa di governo tra le forze che sono andate meglio alle elezioni non è impossibile. Ma troveranno presto sulla loro rotta gli scogli della politica economica e monetaria e della politica estera. Solo se sapranno superarli, e non rimanerne impigliati, potranno apparire affidabili a chi li ha votati, realizzando il loro programma. Sono gli stessi scogli che impediscono allo schieramento riformatore di riguadagnarsi, almeno per ora, la fiducia della classe media.

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