Parlo di economia, e ritengo utile fare una premessa. Tutti i Paesi (a cominciare da Gran Bretagna e Stati Uniti) sono stati protezionisti nella fase di sviluppo e consolidamento del proprio apparato industriale e commerciale, per diventare fautori del libero commercio una volta raggiunta una posizione dominante in tale ambito. Oggi è la Cina a fare questo passo. Questo comportamento sembra suggerire che i mercati aperti con regole comuni avvantaggino solo i più forti.
Veniamo ora a parlare di globalizzazione.
Ho ricordato, in un precedente articolo, quanto scritto alcuni anni fa da due stimati cultori di discipline economiche e sociali (Mario Deaglio ed Emmanuel Todd) circa la non inevitabilità del processo di mondializzazione dei mercati. Aggiungo che dubbi in materia di globalizzazione sono stati espressi dal compianto Giovanni Sartori (“Corriere della Sera”, 8 gennaio 2011) e più recentemente da Giulio Tremonti.
Oggi, a fronte del destino dei trattati di libero scambio e di commercio (TTIP, TPP, NAFTA), rimasti bloccati quelli in cantiere e rimessi in discussione quelli già varati, Federico Rampini, (in Il tradimento: globalizzazione e immigrazione, recentemente pubblicato) intitola l’ultimo capitolo del volume “Globalizzazione addio”.
Interrogativi sulla globalizzazione in corso sono stati nuovamente espressi da Mario Deaglio nella presentazione del XXI Rapporto sull’economia globale e l’Italia del Centro Einaudi. Inoltre, su “La Stampa” del 31 marzo 2017, l’economista torinese ha scritto: “La libertà dei commerci e la globalizzazione spinta hanno portato molti vantaggi, ma questi vantaggi sono stati distribuiti malissimo all’interno dei singoli Paesi, creando una vastissima area di insoddisfazione e persino un aumento della povertà. A fronte di ciò, in quasi ogni Paese, un ampio e molto eterogeneo schieramento politico ritiene preferibile una ridotta quantità di beni associata alla possibilità di controllarne la produzione: meglio un maggior numero di occupati nella produzione di beni che potrebbero essere importati a minor costo piuttosto che un maggior numero di sottooccupati precari. La chiusura delle frontiere commerciali porterebbe probabilmente a una società più ordinata, ma anche a una minore autonomia degli individui, a un maggior intervento pubblico nella produzione, di cui, qua e là, si vede già qualche avvisaglia”.
Il dibattito in argomento si fa pertanto vivace, ma, nei media di più larga diffusione, e nelle dichiarazioni degli esponenti politici dei partiti tradizionali, rimangono prevalenti le argomentazioni in favore dell’apertura dei mercati. Sarebbero i soli “populisti” a voler ritornare ai “confini”: personaggi, talora definiti sprezzantemente “trogloditi”, che intenderebbero riportare indietro la storia di fronte alle difficoltà che, in questo momento, sta incontrando la globalizzazione.
Giorgio Ruffolo (in Lo specchio del diavolo, Einaudi 2006) ha posto John Maynard Keynes tra i grandi economisti liberali (come Adam Smith e David Ricardo), avversi alla circolazione di capitali e lavoratori. Pertanto, sono andato a cercare conferme di ciò, e le ho trovate in un saggio dal titolo Autosufficienza economica, pubblicato nel 1933, di cui presento una breve sintesi (ma è bene leggere per intero l’originale, rintracciabile anche mediante Google).
Cominciamo dalla questione della pace, messa da Keynes al primo posto. È quasi un luogo comune la tesi che il libero commercio internazionale avvicini i popoli mentre il protezionismo, essendo ritenuto parente del nazionalismo, rappresenti una minaccia per la pace. È un’affermazione che, di questi tempi, non manca mai nei discorsi dei capi di Stato europei in occasione di incontri internazionali.
Keynes rifiuta questa tesi. Non pare ovvio, scrive l’economista britannico, che il concentrare gli sforzi di una nazione nella conquista del commercio estero porti alla pace internazionale; ma piuttosto, alla luce dell’esperienza, è più facile giungere alla conclusione opposta. E altrettanto non sono garanzie di pace la penetrazione dell’economia di una nazione da parte delle risorse e dell’influenza di capitali stranieri e la stretta dipendenza della sua vita economica dalle ondeggianti politiche economiche di altri Paesi. Uno schema che mira al massimo di specializzazione internazionale e alla massima diffusione del capitale, senza riguardo a dove risiedano i suoi proprietari, porta quasi inevitabilmente a una logica di conquista di nuovi mercati, alla protezione degli interessi esteri del Paese esportatore di capitali, e quindi all’imperialismo economico.
Le idee, il sapere e la scienza sono le cose che dovrebbero essere internazionali, ma lasciate che le merci siano fatte in casa ogni qual volta è ragionevolmente e praticamente possibile, mentre la finanza deve essere eminentemente nazionale.
L’internazionalismo economico, ovvero la globalizzazione (come si dice oggi), è indispensabile per accrescere la ricchezza del mondo? È inoltre collegato allo sviluppo tecnologico?
Nel secolo XIX, scrive Keynes, si poteva sostenere che avesse ricadute positive. Un grado considerevole di specializzazione internazionale è necessario in tutti quei casi in cui è dettato da grandi differenze di clima, di risorse naturali, di attitudini innate, di grado di civiltà e di densità di popolazione. Ma tale necessità, dice Keynes, si fa oggi sempre meno evidente, perché i progressi della tecnica e la sostituzione delle materie prime permettono ai Paesi di svincolarsi dalle importazioni. Per un numero crescente di prodotti industriali e forse di prodotti agricoli, dubito, aggiunge Keynes, che la perdita economica conseguente all’autarchia nazionale sia così grande da pesare più di altri vantaggi derivanti dal mantenere produzione e consumi nell’ambito della medesima organizzazione nazionale. Bisogna infatti sempre ricercare l’equilibrio tra il vantaggio economico e quello non-economico: infatti il primo è un bene reale che va salvaguardato, ma a condizione che esso sia palesemente di peso superiore rispetto ad altri beni reali che da esso siano minacciati.
Quindi, l’autarchia economica nazionale, sebbene costi qualcosa, sta forse diventando un lusso che ci possiamo permettere, se lo vogliamo.
Perché volere l’autarchia e in quale misura?
Il motivo principale individuato da Keynes è la rivendicazione di essere il più svincolati possibile dalle interferenze determinate dai mutamenti economici che si verifichino altrove, e liberi di poter fare esperimenti in vista della ideale repubblica sociale che si desidera realizzare. Secondo l’economista, un deciso movimento per una maggiore autarchia nazionale e un maggiore isolamento economico, se realizzabile a un costo economico non eccessivo, rende tale compito più facile.
In pratica, Keynes non chiude pregiudizialmente ai commerci internazionali, ma auspica un bilanciamento tra grado di liberalizzazione del commercio internazionale e grado di autonomia in ambito economico nazionale volto a conseguire benefici sociali e a permettere, in primo luogo, la piena occupazione.
È quindi possibile fare un passo indietro rispetto all’internazionalizzazione dei mercati?
Keynes ci dice di sì, ma aggiunge che coloro che cercano di liberare un Paese dai suoi vincoli internazionali dovrebbero tuttavia essere molto cauti nell’intraprendere tale cammino: infatti, non si tratta di strappare le radici, ma di abituare lentamente la pianta a crescere in un’altra direzione.
Quanto scritto in questo saggio dal grande economista britannico non sembra un elemento marginale della sua concezione economica e sociale.
Ciò che afferma in tema di protezionismo e autarchia può essere messo da parte? Può esserne ridimensionata la portata dicendo che sono considerazioni da inquadrare nella situazione di crisi degli anni Trenta, non valide nel mondo attuale?
Keynes scrive che lo sviluppo tecnologico emanciperà sempre più ogni Paese dalla necessità di dipendere dalle risorse provenienti da altrove; e lo dice con riferimento al suo tempo. È un’osservazione valida ancora oggi?
Rilevo che le energie rinnovabili e il nucleare di ultima generazione sono in grado di emancipare ogni Paese, che ne sia privo, dai carburanti fossili. Inoltre, in un’economia circolare, molte materie prime possono essere riciclate e non debbono più essere importate, mentre la smaterializzazione delle produzioni riduce la dipendenza dall’estero. Oggi, e ancor più domani, a dare nuova vita e centralità alla dimensione locale, ci sarà (e in parte c’è già) quella rivoluzione industriale (descritta da Jeremy Rifkin) fondata sulle energie rinnovabili, sull’economia circolare o delle 3R (ridurre il consumo delle risorse, riutilizzare i prodotti, riciclare i rifiuti) e sulle stampanti 3D, un’economia gestita localmente dai prosumers (produttori consumatori). Certamente bisogna tenere conto che ci sono Paesi, come gran parte di quelli europei, caratterizzati ancora da una elevata densità demografica (malgrado la denatalità che li affligge), per i quali c'è la necessità di importare materie prime e risorse che vanno oltre quanto il proprio territorio possa fornire.
Mi chiedo infine cosa oggi direbbe Keynes, che già nel 1933 denunciava il protagonismo delle logiche finanziarie per le conseguenze dannose sull’economia del proprio Paese, a fronte di una globalizzazione che ha consentito al capitale finanziario di dettare legge su tutto e in tutto il mondo.
Il discorso dell’economista britannico lascia intravedere la possibilità di realizzare un compromesso virtuoso tra apertura e chiusura. Il principio di sussidiarietà, applicato anche in ambito economico, risponde a tal fine e sembra essere lo strumento idoneo a consentire di riprendere il controllo delle attività economiche e politiche, se non agli Stati nazionali troppo piccoli (come quelli europei), quanto meno a macroregioni di ordine continentale o subcontinentale, formate dall'integrazione di nazioni geograficamente prossime e legate da vincoli storico-culturali.
Bisogna operare perché fra queste ci sia anche un’Europa consapevole della propria identità, indipendente e in grado di confrontarsi con Stati Uniti e Cina.
Purtroppo, oggi, il processo unitario europeo viene concepito come una semplice tappa verso la mondializzazione. Infatti l'attuale establisment (sempre protagonista nei World Economic Forum di Davos), con la motivazione “There Is No Alternative” (riassunta nell'acronimo TINA), intende promuovere l'espansione del capitale nel mondo intero in un processo di mercificazione di ogni aspetto del vivere, un obiettivo decantato come una necessità naturale e benefica per l'umanità. Per favorire tale cammino, il vertice comunitario si ritiene obbligato a sgombrare il campo da qualsiasi cosa ostacoli questo processo espansivo. Quindi occorre mettere in soffitta ogni controllo dei capitali, gli aiuti statali, i vincoli alla concorrenza, le misure a tutela del lavoro e via dicendo, unitamente a tutto ciò che si richiama alla fisionomia culturale dei singoli Paesi europei.
Tuttavia credo che ci sia ancora qualcuno convinto che costruire l'Europa sia un'altra cosa.
Veniamo ora a parlare di globalizzazione.
Ho ricordato, in un precedente articolo, quanto scritto alcuni anni fa da due stimati cultori di discipline economiche e sociali (Mario Deaglio ed Emmanuel Todd) circa la non inevitabilità del processo di mondializzazione dei mercati. Aggiungo che dubbi in materia di globalizzazione sono stati espressi dal compianto Giovanni Sartori (“Corriere della Sera”, 8 gennaio 2011) e più recentemente da Giulio Tremonti.
Oggi, a fronte del destino dei trattati di libero scambio e di commercio (TTIP, TPP, NAFTA), rimasti bloccati quelli in cantiere e rimessi in discussione quelli già varati, Federico Rampini, (in Il tradimento: globalizzazione e immigrazione, recentemente pubblicato) intitola l’ultimo capitolo del volume “Globalizzazione addio”.
Interrogativi sulla globalizzazione in corso sono stati nuovamente espressi da Mario Deaglio nella presentazione del XXI Rapporto sull’economia globale e l’Italia del Centro Einaudi. Inoltre, su “La Stampa” del 31 marzo 2017, l’economista torinese ha scritto: “La libertà dei commerci e la globalizzazione spinta hanno portato molti vantaggi, ma questi vantaggi sono stati distribuiti malissimo all’interno dei singoli Paesi, creando una vastissima area di insoddisfazione e persino un aumento della povertà. A fronte di ciò, in quasi ogni Paese, un ampio e molto eterogeneo schieramento politico ritiene preferibile una ridotta quantità di beni associata alla possibilità di controllarne la produzione: meglio un maggior numero di occupati nella produzione di beni che potrebbero essere importati a minor costo piuttosto che un maggior numero di sottooccupati precari. La chiusura delle frontiere commerciali porterebbe probabilmente a una società più ordinata, ma anche a una minore autonomia degli individui, a un maggior intervento pubblico nella produzione, di cui, qua e là, si vede già qualche avvisaglia”.
Il dibattito in argomento si fa pertanto vivace, ma, nei media di più larga diffusione, e nelle dichiarazioni degli esponenti politici dei partiti tradizionali, rimangono prevalenti le argomentazioni in favore dell’apertura dei mercati. Sarebbero i soli “populisti” a voler ritornare ai “confini”: personaggi, talora definiti sprezzantemente “trogloditi”, che intenderebbero riportare indietro la storia di fronte alle difficoltà che, in questo momento, sta incontrando la globalizzazione.
Giorgio Ruffolo (in Lo specchio del diavolo, Einaudi 2006) ha posto John Maynard Keynes tra i grandi economisti liberali (come Adam Smith e David Ricardo), avversi alla circolazione di capitali e lavoratori. Pertanto, sono andato a cercare conferme di ciò, e le ho trovate in un saggio dal titolo Autosufficienza economica, pubblicato nel 1933, di cui presento una breve sintesi (ma è bene leggere per intero l’originale, rintracciabile anche mediante Google).
Cominciamo dalla questione della pace, messa da Keynes al primo posto. È quasi un luogo comune la tesi che il libero commercio internazionale avvicini i popoli mentre il protezionismo, essendo ritenuto parente del nazionalismo, rappresenti una minaccia per la pace. È un’affermazione che, di questi tempi, non manca mai nei discorsi dei capi di Stato europei in occasione di incontri internazionali.
Keynes rifiuta questa tesi. Non pare ovvio, scrive l’economista britannico, che il concentrare gli sforzi di una nazione nella conquista del commercio estero porti alla pace internazionale; ma piuttosto, alla luce dell’esperienza, è più facile giungere alla conclusione opposta. E altrettanto non sono garanzie di pace la penetrazione dell’economia di una nazione da parte delle risorse e dell’influenza di capitali stranieri e la stretta dipendenza della sua vita economica dalle ondeggianti politiche economiche di altri Paesi. Uno schema che mira al massimo di specializzazione internazionale e alla massima diffusione del capitale, senza riguardo a dove risiedano i suoi proprietari, porta quasi inevitabilmente a una logica di conquista di nuovi mercati, alla protezione degli interessi esteri del Paese esportatore di capitali, e quindi all’imperialismo economico.
Le idee, il sapere e la scienza sono le cose che dovrebbero essere internazionali, ma lasciate che le merci siano fatte in casa ogni qual volta è ragionevolmente e praticamente possibile, mentre la finanza deve essere eminentemente nazionale.
L’internazionalismo economico, ovvero la globalizzazione (come si dice oggi), è indispensabile per accrescere la ricchezza del mondo? È inoltre collegato allo sviluppo tecnologico?
Nel secolo XIX, scrive Keynes, si poteva sostenere che avesse ricadute positive. Un grado considerevole di specializzazione internazionale è necessario in tutti quei casi in cui è dettato da grandi differenze di clima, di risorse naturali, di attitudini innate, di grado di civiltà e di densità di popolazione. Ma tale necessità, dice Keynes, si fa oggi sempre meno evidente, perché i progressi della tecnica e la sostituzione delle materie prime permettono ai Paesi di svincolarsi dalle importazioni. Per un numero crescente di prodotti industriali e forse di prodotti agricoli, dubito, aggiunge Keynes, che la perdita economica conseguente all’autarchia nazionale sia così grande da pesare più di altri vantaggi derivanti dal mantenere produzione e consumi nell’ambito della medesima organizzazione nazionale. Bisogna infatti sempre ricercare l’equilibrio tra il vantaggio economico e quello non-economico: infatti il primo è un bene reale che va salvaguardato, ma a condizione che esso sia palesemente di peso superiore rispetto ad altri beni reali che da esso siano minacciati.
Quindi, l’autarchia economica nazionale, sebbene costi qualcosa, sta forse diventando un lusso che ci possiamo permettere, se lo vogliamo.
Perché volere l’autarchia e in quale misura?
Il motivo principale individuato da Keynes è la rivendicazione di essere il più svincolati possibile dalle interferenze determinate dai mutamenti economici che si verifichino altrove, e liberi di poter fare esperimenti in vista della ideale repubblica sociale che si desidera realizzare. Secondo l’economista, un deciso movimento per una maggiore autarchia nazionale e un maggiore isolamento economico, se realizzabile a un costo economico non eccessivo, rende tale compito più facile.
In pratica, Keynes non chiude pregiudizialmente ai commerci internazionali, ma auspica un bilanciamento tra grado di liberalizzazione del commercio internazionale e grado di autonomia in ambito economico nazionale volto a conseguire benefici sociali e a permettere, in primo luogo, la piena occupazione.
È quindi possibile fare un passo indietro rispetto all’internazionalizzazione dei mercati?
Keynes ci dice di sì, ma aggiunge che coloro che cercano di liberare un Paese dai suoi vincoli internazionali dovrebbero tuttavia essere molto cauti nell’intraprendere tale cammino: infatti, non si tratta di strappare le radici, ma di abituare lentamente la pianta a crescere in un’altra direzione.
Quanto scritto in questo saggio dal grande economista britannico non sembra un elemento marginale della sua concezione economica e sociale.
Ciò che afferma in tema di protezionismo e autarchia può essere messo da parte? Può esserne ridimensionata la portata dicendo che sono considerazioni da inquadrare nella situazione di crisi degli anni Trenta, non valide nel mondo attuale?
Keynes scrive che lo sviluppo tecnologico emanciperà sempre più ogni Paese dalla necessità di dipendere dalle risorse provenienti da altrove; e lo dice con riferimento al suo tempo. È un’osservazione valida ancora oggi?
Rilevo che le energie rinnovabili e il nucleare di ultima generazione sono in grado di emancipare ogni Paese, che ne sia privo, dai carburanti fossili. Inoltre, in un’economia circolare, molte materie prime possono essere riciclate e non debbono più essere importate, mentre la smaterializzazione delle produzioni riduce la dipendenza dall’estero. Oggi, e ancor più domani, a dare nuova vita e centralità alla dimensione locale, ci sarà (e in parte c’è già) quella rivoluzione industriale (descritta da Jeremy Rifkin) fondata sulle energie rinnovabili, sull’economia circolare o delle 3R (ridurre il consumo delle risorse, riutilizzare i prodotti, riciclare i rifiuti) e sulle stampanti 3D, un’economia gestita localmente dai prosumers (produttori consumatori). Certamente bisogna tenere conto che ci sono Paesi, come gran parte di quelli europei, caratterizzati ancora da una elevata densità demografica (malgrado la denatalità che li affligge), per i quali c'è la necessità di importare materie prime e risorse che vanno oltre quanto il proprio territorio possa fornire.
Mi chiedo infine cosa oggi direbbe Keynes, che già nel 1933 denunciava il protagonismo delle logiche finanziarie per le conseguenze dannose sull’economia del proprio Paese, a fronte di una globalizzazione che ha consentito al capitale finanziario di dettare legge su tutto e in tutto il mondo.
Il discorso dell’economista britannico lascia intravedere la possibilità di realizzare un compromesso virtuoso tra apertura e chiusura. Il principio di sussidiarietà, applicato anche in ambito economico, risponde a tal fine e sembra essere lo strumento idoneo a consentire di riprendere il controllo delle attività economiche e politiche, se non agli Stati nazionali troppo piccoli (come quelli europei), quanto meno a macroregioni di ordine continentale o subcontinentale, formate dall'integrazione di nazioni geograficamente prossime e legate da vincoli storico-culturali.
Bisogna operare perché fra queste ci sia anche un’Europa consapevole della propria identità, indipendente e in grado di confrontarsi con Stati Uniti e Cina.
Purtroppo, oggi, il processo unitario europeo viene concepito come una semplice tappa verso la mondializzazione. Infatti l'attuale establisment (sempre protagonista nei World Economic Forum di Davos), con la motivazione “There Is No Alternative” (riassunta nell'acronimo TINA), intende promuovere l'espansione del capitale nel mondo intero in un processo di mercificazione di ogni aspetto del vivere, un obiettivo decantato come una necessità naturale e benefica per l'umanità. Per favorire tale cammino, il vertice comunitario si ritiene obbligato a sgombrare il campo da qualsiasi cosa ostacoli questo processo espansivo. Quindi occorre mettere in soffitta ogni controllo dei capitali, gli aiuti statali, i vincoli alla concorrenza, le misure a tutela del lavoro e via dicendo, unitamente a tutto ciò che si richiama alla fisionomia culturale dei singoli Paesi europei.
Tuttavia credo che ci sia ancora qualcuno convinto che costruire l'Europa sia un'altra cosa.
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