Partiti personali e, dunque, deboli



Aldo Novellini    7 Febbraio 2018       0

Nel comporre le liste elettorali, il segretario del PCI Enrico Berlinguer mai avrebbe umiliato Armando Cossutta escludendo in maniera arbitraria i suoi seguaci dalla candidatura in Parlamento. Né lo avrebbe fatto il leader MSI, Giorgio Almirante con il suo rivale interno Pino Rauti o il segretario socialista Bettino Craxi con Riccardo Lombardi e la sua corrente di minoranza. Per non parlare della DC dove, a un certo punto, vigeva addirittura il manuale Cencelli, all'epoca irriso e vituperato ma che oggi sarebbe davvero una guida di bon ton elettorale, per dare spazio a tutti e non solo ai fedelissimi del capo.
Perché è questo che oggi sta succedendo. Dappertutto. Da Forza Italia, partito padronale per eccellenza, alla Lega, dove è stato messo fuori dalle liste addirittura Gianni Fava, il principale concorrente di Matteo Salvini per la segreteria. Lo stesso accade nel M5S, in cui le scelte che veramente contano sono unicamente quelle, in solitario, del suo leader Luigi Di Maio. Se poi passiamo ad osservare il campo della sinistra vediamo un PD sempre più ridotto a riserva di caccia renziana e persino Liberi e Uguali acconciarsi a questo andazzo verticistico. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, leader della neonata formazione, ha addirittura messo in riga la sua omologa della Camera, Laura Boldrini, che aveva osato svolgere alcune riflessioni sulle future alleanze.
Tocca solo al capo decidere e dettare la linea, tra i plausi di qualche accolito. Le forze politiche divengono dei giocattoli in mano al leader, perdendo i connotati di una strutturata organizzazione collettiva. Ed è in effetti questa concezione proprietaria del partito a caratterizzare il mediocre ceto politico della cosiddetta Seconda Repubblica, rispetto alla classe dirigente della Prima, non necessariamente più onesta e capace, ma certo maggiormente consapevole che nessuna formazione politica potesse venir gestita con la formula dell'“uomo solo al comando”. Questa è invece l'odierna distorsione. Talmente inveterata da sembrare il fatto più naturale del mondo.
Se i partiti sono sempre più deboli e screditati è anche a causa di questa smodata personalizzazione che soffoca il dibattito interno e l'elaborazione politica. D'altronde le preferenze, che obbligavano a cercare il consenso sul territorio, sono state sostituite dalla nomina dall'alto: meccanismo ideale per fare della fedeltà al capo di turno il solo criterio per essere inseriti nelle liste e ottenere una candidatura. Peccato che, così facendo, la politica venga ridotta unicamente a mediocri ambizioni personali senza alcuna autentica progettualità.
Eppure una buona politica, sia essa di destra o di sinistra, per sua natura non può che fondarsi sulla partecipazione, sulla discussione, sul ragionamento. Vi è chi bolla con disprezzo questo metodo come quello “dei caminetti”, quando invece si tratta soltanto di elaborare collettivamente una linea condivisa.
Assistiamo così nelle forze politiche ad una vera e propria mutazione genetica. Un fenomeno che ormai caratterizza anche il PD che pure dovrebbe, per sua natura, essere aperto e plurale. La scelta della candidature per le politiche mostra in tutta evidenza questa deriva. Nella suddivisione dei collegi non si è neanche tenuto conto delle percentuali raggiunte dalle diverse componenti nelle primarie per la scelta del segretario. C'è stata invece una corsa a salvare a tutti i costi i fedelissimi del “leader maximo”, con scelte al limite del ridicolo, pur di garantir loro la sopravvivenza politica. Scelte di corto respiro, poco rispettose di un vero pluralismo, e che, nello specifico caso del PD, rischiano di danneggiare seriamente il progetto sottostante.


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