Se il PD di Renzi continua a farsi vanto della distribuzione degli 80 euro netti mensili come se questo rappresentasse la chiave di volta per la ripresa economica e il riscatto dei lavoratori, senza rendersi conto di cosa significa utilizzare fondi pubblici per dare soldi a chi ha già un lavoro piuttosto che trovare soluzioni per chi il lavoro non ce l'ha, allora non ci siamo.
Se sono un vanto anche gli interventi fatti a favore delle aziende, dal jobs act agli sgravi fiscali, dall'abolizione dell'art.18 alle "aziende 4.0" (chissà poi cosa vorrà dire?), anche qui non ci siamo. Perché provvedimenti del genere possono avere una loro giustificazione quando governano le destre. Ma, soprattutto, non risolvono i problemi occupazionali: chi ha bisogno di lavoratori assume a prescindere e non ha bisogno, seppur graditi quando arrivano, di incentivi.
Riguardo alle nuove tecnologie. Non esiste sulla faccia della Terra un solo imprenditore disposto ad investire in nuove tecnologie se queste non portano a una riduzione dei costi di produzione. Il che, drasticamente, significa riduzione dei posti di lavoro. Eccepire, come viene fatto a supporto delle decisioni politiche da autorevoli esperti economici, che “le nuove tecnologie producono i nuovi posti di lavoro necessari per creare la tecnologia stessa”, significa soltanto (se non si è in malafede) mancare di una visione d'insieme. Perché, a conclusione di tutto e a conti fatti, complessivamente i posti di lavoro si riducono, inevitabilmente. E allora, anche qui, non ci siamo.
Ma non basta. Quando, per fare un esempio, un giovane laureato italiano viene assunto dal dipartimento francese della Marna con il compito di contattare le aziende piemontesi offrendo loro i vantaggi del trasferire oltralpe le loro attività, anche qui non ci siamo. Nemmeno nel nostro stare in Europa. A proposito, cosa hanno fatto e cosa stanno facendo i nostri parlamentari europei per contrastare queste “guerre tra poveri” cercando di rendere omogenei contratti, trattamenti fiscali e condizioni di lavoro a livello europeo?
In Italia, ma non solo, il mondo del lavoro ha subito nel corso del tempo delle trasformazioni radicali. In mezzo a tutto questo è capitata la crisi. Forse la crisi sta finendo, ma le trasformazioni radicali sono rimaste. Ed è gravissimo che nessuno se ne renda conto: forse siamo da anni nelle mani di una politica incompetente (a prescindere dalle colorazioni politiche) e nelle mani di organismi di rappresentanza aggrappati ai loro vecchi stereotipi e sganciati dalla realtà (come ad esempio i sindacati). Quindi non ci siamo, nuovamente.
Nel corso degli anni, tra la generale indifferenza, il lavoro dipendente ha subito un drastico ridimensionamento che si può riassumere in quattro fasi: la robotica ha falcidiato il lavoro operaio; l'informatica ha falcidiato il lavoro impiegatizio; la corsa al risparmio con la progressiva cessione da parte delle aziende di rami di attività ha portato precarietà in tali ambiti, ceduti all'esterno al migliore offerente; la digitalizzazione oggi sta colpendo addirittura degli intoccabili come i dipendenti delle banche.
È sempre più chiaro, in particolare ai lavoratori, che nonostante le rassicurazioni di un ministro del Lavoro sempre più incompetente, sta finendo il lavoro per tutti così come tradizionalmente inteso. E che per nessuno c'è il posto di lavoro “sicuro”. Si salva ancora pubblico impiego, per ora. Però, il blocco delle assunzioni in questo comparto non offre sbocchi occupazionali, ma, per il momento, solo un risparmio che ha contribuito a rendere ancora più inefficiente il sistema statale. Col risultato, oltretutto, di creare rancori tra i cittadini.
Sul versante imprenditoriale, invece, i grandi gruppi industriali se ne sono andati. Alcuni hanno trasferito le attività all'estero per motivi fiscali. Altri imprenditori hanno venduto, preferendo al rischio d'impresa e con la complicità delle banche, il meno faticoso e più redditizio “fare finanza”.
La situazione è desolante: in Italia il 79,5 % delle aziende ha meno di dieci dipendenti, un altro 16 % svolge attività stagionale, il 3,8 % ha meno di 50 dipendenti e solo lo 0,3 più di 250. Ma ancora più allarmante è il dato che la vita media di una PMI si è ridotta a 12 anni, che il 70 % delle aziende cessa l'attività nei primi dieci anni e che le ditte individuali falliscono per i 2/3 nel primo decennio (con una fascia cruciale intorno ai 3 anni di vita). Anche le attività imprenditoriali italiane, quindi, sono diventate sempre più precarie: così come già era precario il lavoro dipendente per conseguenza diretta anche di tutto questo.
Con questa situazione di permanente precarietà, l'occupazione ha un andamento altalenante. Tale da lasciar prevedere che, ogni anno, i “nuovi posti di lavoro” sono destinati ad essere centinaia di migliaia (e forse ancor più in futuro, ma farsene vanto è da stolti): questo perché si tratta di posti di lavoro in sostituzione, spesso parziale, dei posti di lavoro persi nello stesso periodo. Ma, sia chiaro, questo avviene per effetto della grande mobilità oggi esistente nel mondo del lavoro: e non per merito di quanto fatto finora per aumentare i livelli occupazionali. Questi, al contrario, nel loro complesso tendono a diminuire: sia la quantità di ore lavorate sia la loro remunerazione. In questo contesto, con i suoi 100 miliardi all'anno di evasione, il lavoro nero in Italia finisce per incidere ancora di più sulla chiusura delle aziende. Infatti, da sempre, dove il lavoro disonesto prolifera, l'imprenditore onesto soccombe.
La nostra società è diventata nel suo insieme più debole. E questo dato sembra che dalla politica, bene o male, venga percepito: almeno a giudicare dalle proposte che vengono fatte circa il “reddito di cittadinanza” da una parte, e il “reddito d'inclusione” dall'altra. Ma queste sono, purtroppo, soluzioni limitate e di tipo assistenziale. Se le destre (come sembra) vinceranno le prossime elezioni, ribalteranno la questione con il concetto, a loro tanto caro quanto ipocrita, che “aiutare i deboli oltre un certo limite significa privarli dell'incentivo per emanciparsi”. Prevedibile quindi una inversione di tendenza nelle decisioni politiche. Una specie di punto e a capo fino al prossimo giro. E poi?
Un'alternativa a tutto questo ci sarebbe. Se la precarietà del lavoro, come credo di avere pur sinteticamente evidenziato, è un dato permanente che riguarda sia i lavoratori sia le aziende e che porta ogni persona ad avere una vita lavorativa a “segmenti”, con una alternanza tra periodi di lavoro e periodi di disoccupazione durante i quali bisognerà avere la capacità di “reinventarsi” circa le proprie capacità lavorative, magari attraverso corsi di formazione e studio, allora è necessario creare al più presto una struttura permanente di assistenza da parte dello Stato, composta da veri esperti operanti sul territorio, in grado di mettere insieme le istanze delle aziende con quelle dei lavoratori, in un lavoro di previsione che coinvolge anche la Scuola e la Formazione professionale.
In conclusione, se quei famosi 80 euro distribuiti “a casaccio” e che , se non sbaglio, corrispondono a non meno di dieci miliardi di euro all'anno, venissero investiti per creare questa struttura e per sostenere economicamente quei lavoratori che si trovano nella fase di “non lavoro” e si stanno impegnando attraverso la formazione per trovare nuova occupazione, forse il nostro Paese potrebbe uscire dalla sua concezione arretrata di lavoro e garantire una vita sostenibile a chi ne fa parte.
Sarebbe, insomma, un'altra storia.
Se sono un vanto anche gli interventi fatti a favore delle aziende, dal jobs act agli sgravi fiscali, dall'abolizione dell'art.18 alle "aziende 4.0" (chissà poi cosa vorrà dire?), anche qui non ci siamo. Perché provvedimenti del genere possono avere una loro giustificazione quando governano le destre. Ma, soprattutto, non risolvono i problemi occupazionali: chi ha bisogno di lavoratori assume a prescindere e non ha bisogno, seppur graditi quando arrivano, di incentivi.
Riguardo alle nuove tecnologie. Non esiste sulla faccia della Terra un solo imprenditore disposto ad investire in nuove tecnologie se queste non portano a una riduzione dei costi di produzione. Il che, drasticamente, significa riduzione dei posti di lavoro. Eccepire, come viene fatto a supporto delle decisioni politiche da autorevoli esperti economici, che “le nuove tecnologie producono i nuovi posti di lavoro necessari per creare la tecnologia stessa”, significa soltanto (se non si è in malafede) mancare di una visione d'insieme. Perché, a conclusione di tutto e a conti fatti, complessivamente i posti di lavoro si riducono, inevitabilmente. E allora, anche qui, non ci siamo.
Ma non basta. Quando, per fare un esempio, un giovane laureato italiano viene assunto dal dipartimento francese della Marna con il compito di contattare le aziende piemontesi offrendo loro i vantaggi del trasferire oltralpe le loro attività, anche qui non ci siamo. Nemmeno nel nostro stare in Europa. A proposito, cosa hanno fatto e cosa stanno facendo i nostri parlamentari europei per contrastare queste “guerre tra poveri” cercando di rendere omogenei contratti, trattamenti fiscali e condizioni di lavoro a livello europeo?
In Italia, ma non solo, il mondo del lavoro ha subito nel corso del tempo delle trasformazioni radicali. In mezzo a tutto questo è capitata la crisi. Forse la crisi sta finendo, ma le trasformazioni radicali sono rimaste. Ed è gravissimo che nessuno se ne renda conto: forse siamo da anni nelle mani di una politica incompetente (a prescindere dalle colorazioni politiche) e nelle mani di organismi di rappresentanza aggrappati ai loro vecchi stereotipi e sganciati dalla realtà (come ad esempio i sindacati). Quindi non ci siamo, nuovamente.
Nel corso degli anni, tra la generale indifferenza, il lavoro dipendente ha subito un drastico ridimensionamento che si può riassumere in quattro fasi: la robotica ha falcidiato il lavoro operaio; l'informatica ha falcidiato il lavoro impiegatizio; la corsa al risparmio con la progressiva cessione da parte delle aziende di rami di attività ha portato precarietà in tali ambiti, ceduti all'esterno al migliore offerente; la digitalizzazione oggi sta colpendo addirittura degli intoccabili come i dipendenti delle banche.
È sempre più chiaro, in particolare ai lavoratori, che nonostante le rassicurazioni di un ministro del Lavoro sempre più incompetente, sta finendo il lavoro per tutti così come tradizionalmente inteso. E che per nessuno c'è il posto di lavoro “sicuro”. Si salva ancora pubblico impiego, per ora. Però, il blocco delle assunzioni in questo comparto non offre sbocchi occupazionali, ma, per il momento, solo un risparmio che ha contribuito a rendere ancora più inefficiente il sistema statale. Col risultato, oltretutto, di creare rancori tra i cittadini.
Sul versante imprenditoriale, invece, i grandi gruppi industriali se ne sono andati. Alcuni hanno trasferito le attività all'estero per motivi fiscali. Altri imprenditori hanno venduto, preferendo al rischio d'impresa e con la complicità delle banche, il meno faticoso e più redditizio “fare finanza”.
La situazione è desolante: in Italia il 79,5 % delle aziende ha meno di dieci dipendenti, un altro 16 % svolge attività stagionale, il 3,8 % ha meno di 50 dipendenti e solo lo 0,3 più di 250. Ma ancora più allarmante è il dato che la vita media di una PMI si è ridotta a 12 anni, che il 70 % delle aziende cessa l'attività nei primi dieci anni e che le ditte individuali falliscono per i 2/3 nel primo decennio (con una fascia cruciale intorno ai 3 anni di vita). Anche le attività imprenditoriali italiane, quindi, sono diventate sempre più precarie: così come già era precario il lavoro dipendente per conseguenza diretta anche di tutto questo.
Con questa situazione di permanente precarietà, l'occupazione ha un andamento altalenante. Tale da lasciar prevedere che, ogni anno, i “nuovi posti di lavoro” sono destinati ad essere centinaia di migliaia (e forse ancor più in futuro, ma farsene vanto è da stolti): questo perché si tratta di posti di lavoro in sostituzione, spesso parziale, dei posti di lavoro persi nello stesso periodo. Ma, sia chiaro, questo avviene per effetto della grande mobilità oggi esistente nel mondo del lavoro: e non per merito di quanto fatto finora per aumentare i livelli occupazionali. Questi, al contrario, nel loro complesso tendono a diminuire: sia la quantità di ore lavorate sia la loro remunerazione. In questo contesto, con i suoi 100 miliardi all'anno di evasione, il lavoro nero in Italia finisce per incidere ancora di più sulla chiusura delle aziende. Infatti, da sempre, dove il lavoro disonesto prolifera, l'imprenditore onesto soccombe.
La nostra società è diventata nel suo insieme più debole. E questo dato sembra che dalla politica, bene o male, venga percepito: almeno a giudicare dalle proposte che vengono fatte circa il “reddito di cittadinanza” da una parte, e il “reddito d'inclusione” dall'altra. Ma queste sono, purtroppo, soluzioni limitate e di tipo assistenziale. Se le destre (come sembra) vinceranno le prossime elezioni, ribalteranno la questione con il concetto, a loro tanto caro quanto ipocrita, che “aiutare i deboli oltre un certo limite significa privarli dell'incentivo per emanciparsi”. Prevedibile quindi una inversione di tendenza nelle decisioni politiche. Una specie di punto e a capo fino al prossimo giro. E poi?
Un'alternativa a tutto questo ci sarebbe. Se la precarietà del lavoro, come credo di avere pur sinteticamente evidenziato, è un dato permanente che riguarda sia i lavoratori sia le aziende e che porta ogni persona ad avere una vita lavorativa a “segmenti”, con una alternanza tra periodi di lavoro e periodi di disoccupazione durante i quali bisognerà avere la capacità di “reinventarsi” circa le proprie capacità lavorative, magari attraverso corsi di formazione e studio, allora è necessario creare al più presto una struttura permanente di assistenza da parte dello Stato, composta da veri esperti operanti sul territorio, in grado di mettere insieme le istanze delle aziende con quelle dei lavoratori, in un lavoro di previsione che coinvolge anche la Scuola e la Formazione professionale.
In conclusione, se quei famosi 80 euro distribuiti “a casaccio” e che , se non sbaglio, corrispondono a non meno di dieci miliardi di euro all'anno, venissero investiti per creare questa struttura e per sostenere economicamente quei lavoratori che si trovano nella fase di “non lavoro” e si stanno impegnando attraverso la formazione per trovare nuova occupazione, forse il nostro Paese potrebbe uscire dalla sua concezione arretrata di lavoro e garantire una vita sostenibile a chi ne fa parte.
Sarebbe, insomma, un'altra storia.
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