Negli anni Novanta, quando da noi e nel resto d'Europa il termine populismo non aveva ancora la diffusione di oggi, negli Stati Uniti Christopher Lasch (in La ribellione delle élite) aveva individuato gli spazi che si aprivano ai movimenti ad esso ispirati a seguito delle ricadute negative delle politiche economiche liberiste: infatti, un mercato senza controllo e una marcata competizione avevano prodotto (e ancora producono) una crescente distanza tra la ristretta cerchia dei beneficiati e le classi popolari.
Lasch ha capito molto prima di noi quanto stava emergendo non solo perché l'America, come paese leader, anticipa le novità in tutti gli ambiti, ma soprattutto per il peso che la tradizione populista ha negli USA. Qui, a cavallo tra XIX e XX secolo, è nato il People Party che, insieme ai Narodniki russi, ha rappresentato le origini del movimento populista. Un movimento che ha influenzato uomini di governo (ne sono riscontrabili elementi sia nell’azione di Theodore Roosevelt sia, in minor misura, in quella del cugino Franklin Delano Roosevelt) e pensatori e letterati (come nel John Steinbeck autore di Furore).
In un precedente articolo (Il fallimento dell’élite liberal - Rinascita popolare - 17/11/2016), ho già riportato la spietata rappresentazione che Lasch fornisce dell’élite al vertice della società odierna. Oggi, voglio soffermarmi su una sorta di manifesto del populismo disegnato dal sociologo americano.
Sul terreno economico, Lasch ritiene necessario contrastare con forza i poteri e i privilegi delle grandi imprese multinazionali e attuare riforme in senso ugualitario. Occorre inoltre porre limiti alla pervasività del mercato senza, tuttavia, estendere il ruolo dello Stato e del suo braccio operativo burocratico; anzi la burocrazia statale centralizzata è opportuno che sia fortemente ridimensionata. Fra Stato e mercato, dovrà crescere il peso delle comunità, alle quali spetta anche il compito di sostituire gradualmente in larga misura lo stato assistenziale. Vanno inoltre potenziate le istituzioni decentrate perché la democrazia esige la partecipazione attiva dei cittadini al dibattito politico e alle scelte che ne conseguono, una partecipazione favorita quando realizzata nell’ambito municipale. Inoltre, il decentramento è indispensabile anche per sostenere le molte piccole e medie imprese locali, che costituiscono una importante componente produttiva del Paese.
In pratica si tratta di mettere in atto la sussidiarietà nelle istituzioni e nell’economia.
In una logica comunitaria, secondo Lasch, si deve porre l’accento sui doveri e sulle responsabilità dei cittadini e non solo parlare di diritti. Lasch vede una minaccia per la democrazia in quel filone di pensiero che aspira a manipolare senza limiti il reale, umano e naturale, in quegli esponenti dell’élite che vivono in un mondo di simboli astratti (dalle quotazioni di borsa dei titoli finanziari, alle immagini visive che permeano la rete) e utilizzano gli strumenti di comunicazione per alterare la percezione di tutto quanto ci circonda. Si tratta di un pericolo ben compreso dalle classi popolari e dalla gente comune che, al contrario di quanto pensano i membri dell’élite, manifestano, nella vita quotidiana, realismo e buon senso.
C’è una indubbia convergenza tra le idee di Lasch e il progetto di società che intendono costruire gli “obiettori di crescita”, essendo il progetto di decrescita orientato a spostare il baricentro dell’economia verso la dimensione locale per favorire il controllo partecipato dei processi di produzione e di distribuzione della ricchezza.
Si possono inoltre intravedere punti di contatto con quella rivoluzione incentrata sui Commons profetizzata da Jeremy Rifkin ed altresì con i radicali cambiamenti dei modi di produzione e di consumo richiesti da quella “transizione ecologica” illustrata da padre Gael Giraud.
In tutti i soggetti citati, c’è il rifiuto dell’attuale turbocapitalismo generato dalla globalizzazione e di un mercato totalizzante e pervasivo che mira a determinare ogni aspetto della vita in funzione della sola crescita del prodotto interno lordo. Un rifiuto che costituisce il punto di partenza per la costruzione di una società più sostenibile, più autonoma e più equa.
Quando, tuttavia, guardiamo ai movimenti “populisti” (o definiti tali) oggi attivi in Europa, li troviamo ben lontani dal fare propri i contenuti progettuali sopra indicati.
Se prendiamo in esame tali movimenti, vediamo che la loro contestazione del sistema si limita ad alcuni aspetti di questo, ma non prende mai di petto l’assetto complessivo del modello sociale neo-liberal (liberista nella sfera economica e libertario-libertino in quella societaria).
I 5 Stelle denunciano la corruzione, l’illegalità, i privilegi della casta (limitata a quella dei politici e degli uomini di banca), mentre esaltano il ruolo della magistratura senza coglierne i molti tratti corporativi che la caratterizzano e la tendenza ad esorbitare dal suo ruolo. Vedono nel reddito di cittadinanza la soluzione per povertà e disoccupazione, ma non precisano dove troveranno le risorse necessarie e quali strumenti fiscali intendano utilizzare a sostegno di una tale iniziativa; inoltre, non delineano alternative al modello di produzione capitalistico.
La Lega focalizza il suo obiettivo di lotta su una immigrazione non gestita, sull’euro, ritenuto una moneta non rispondente alle esigenza del Paese, sulla mancanza di sicurezza, ma fa proprie ricette sostanzialmente liberiste in economia. Inoltre, non vede per nulla le problematiche ambientaliste e nega la natura antropica delle modificazioni climatiche.
Negli altri Paesi le cose non vanno meglio. In Gran Bretagna, l’UKIP ha concentrato i suoi sforzi sulla Brexit, ottenuta la quale, non trova più motivo di esistenza. In Olanda, il partito di Geert Wilders critica la classe politica e demonizza l’Islam, ma per il resto è perfettamente allineato all’ideologia dominante (taglio delle tasse, ridimensionamento dello Stato) a cui accompagna il più spinto progressismo sui temi etici e un drastico antiambientalismo. In Francia, sul movimento di Marine Le Pen pesa negativamente l’ambigua eredità del passato unitamente alle molte contraddizioni non risolte del suo programma. In Germania, Alternative fur Deutschland, accanto a posizioni euroscettiche e identitarie, si fa portavoce del liberismo più spinto. Ci sono poi movimenti – come Syriza, Podemos, il raggruppamento di Mélenchon ed altri – che rifiutano di essere qualificati populisti, ma il cui elettorato si sovrappone a quello di questi ultimi.
Di fronte ai guasti prodotti dalla globalizzazione e dall’assetto neo-liberal, i cosiddetti “populisti”, pur molto differenziati tra loro, si presentano come interpreti delle esigenze degli sconfitti e delle molte vittime dei processi in corso ma, come detto, non sembrano in grado di dar loro risposte adeguate, in quanto agiscono senza far riferimento a un progetto sostenuto da una visione del mondo (o una ideologia) alternativa a quella dominante.
Alcuni (come i 5 Stelle o Podemos) talora sembrano intuirne vagamente i contorni, ma non riescono a definirla. Senza l’elaborazione di un quadro di insieme della situazione, senza analisi appropriate, senza la rimessa in discussione complessiva del modello di civiltà e di società contro la quale pretendono di combattere, essi sono destinati a non vincere mai, o quando avessero un successo elettorale, non saprebbero tradurlo in azioni di governo.
Di ciò, però, non è il caso che si rallegrino i tradizionali partiti (che ancora si definiscono di destra e di sinistra mentre appaiono sempre meno distinguibili), perché anche se i “populisti” dovessero avere delle cadute nei consensi, i voti da loro persi finirebbero in gran parte nell’astensionismo in attesa che nuovi contestatori del sistema si affaccino alla ribalta.
Sono infatti destinati ad aumentare coloro che soffrono dei guasti della globalizzazione, e anche quanti sono spaventati da un mondo non più governato e disorientati dalla mancanza di riferimenti stabili e condivisi. Tutti costoro mettono sotto accusa l’intera élite ai vertici dei Paesi occidentali, sia quella che esercita direttamente il potere (politici dell’area di governo, tecnocrati, alti dirigenti statali, banchieri, grandi industriali, top manager), sia quella che diffonde il verbo del neoliberalismo (opinionisti, giornalisti, intellettuali ben inseriti negli atenei e nell’editoria, esponenti del mondo dello spettacolo, ecc.). Questa élite ha teorizzato i benefici delle frontiere aperte, ma il risultato è andato solo a suo vantaggio, mentre per la maggior parte della gente comune ci sono state precarietà, disoccupazione e perdita di sicurezza economica.
I fautori del pensiero politicamente corretto esaltano tutto ciò che è sovranazionale dicendo che lo Stato-nazione è superato in un mondo sempre più interconnesso, ma così lo stesso esercizio della sovranità popolare viene messo in discussione perché è nell’ambito dello Stato-nazione che parlamenti e governi agiscono. Senza sovranità, c’è spazio per il solo mercato e per poteri lontani, non sintonizzati con le opinioni e le esigenze di chi vive nei vari Paesi.
Cosi si avvantaggiano pochi, sempre gli stessi.
I membri di questa élite ci indicano come traguardo, o come inevitabile destino, la società multietnica, ma (come scrive Federico Rampini in Il tradimento: globalizzazione e immigrazione, le menzogne delle élite) non comprendono che questo termine non vuole dire niente perché nessuno sa quale ne sia l’esito finale, che comunque comporterà vincenti e perdenti sul piano culturale e non solo. Infatti (aggiungo io) i risultati dipendono dalla dimensione dei fenomeni migratori, dai ritmi con cui si producono e dalle provenienze dei migranti, assai differenziati per i valori culturali professati, sovente lontani dai nostri e profondamente radicati.
Inoltre, i partiti tradizionali in sintonia con il verbo dominate, continuano a pensare che spetti al turbocapitalismo, il sistema economico più efficiente (in termini di PIL), definire il cammino per generare sviluppo e ricchezza. Pertanto, confinano l’azione politica in limiti assai ristretti: sostanzialmente mettere un qualche riparo ai guasti sociali ed ambientali che il cambiamento incontrollato produce.
Destra e sinistra, semmai, discutono su quali strumenti utilizzare per favorire la crescita del sistema economico, senza mai metterlo in discussione. Certo, c’è chi tenta, in qualche misura, di ridistribuire la ricchezza prodotta, ma ogni azione condotta negli ambiti nazionali (ove oggi solamente può agire la politica) si rivela sempre inadeguata in un mondo che per tutto il resto è diventato globale.
Purtroppo, finché non si farà più marcato il deterioramento sociale e ambientale per il convergere delle varie crisi (occupazionale, ecologica, climatica, migratoria, di sicurezza, ecc.), difficilmente le forze politiche, sia tradizionali sia “populiste”, prenderanno in considerazione l’esigenza di mutare rotta per affrontare alla radice le cause prime di quelle crisi che oggi tentano di curare con terapie puramente sintomatiche.
Lasch ha capito molto prima di noi quanto stava emergendo non solo perché l'America, come paese leader, anticipa le novità in tutti gli ambiti, ma soprattutto per il peso che la tradizione populista ha negli USA. Qui, a cavallo tra XIX e XX secolo, è nato il People Party che, insieme ai Narodniki russi, ha rappresentato le origini del movimento populista. Un movimento che ha influenzato uomini di governo (ne sono riscontrabili elementi sia nell’azione di Theodore Roosevelt sia, in minor misura, in quella del cugino Franklin Delano Roosevelt) e pensatori e letterati (come nel John Steinbeck autore di Furore).
In un precedente articolo (Il fallimento dell’élite liberal - Rinascita popolare - 17/11/2016), ho già riportato la spietata rappresentazione che Lasch fornisce dell’élite al vertice della società odierna. Oggi, voglio soffermarmi su una sorta di manifesto del populismo disegnato dal sociologo americano.
Sul terreno economico, Lasch ritiene necessario contrastare con forza i poteri e i privilegi delle grandi imprese multinazionali e attuare riforme in senso ugualitario. Occorre inoltre porre limiti alla pervasività del mercato senza, tuttavia, estendere il ruolo dello Stato e del suo braccio operativo burocratico; anzi la burocrazia statale centralizzata è opportuno che sia fortemente ridimensionata. Fra Stato e mercato, dovrà crescere il peso delle comunità, alle quali spetta anche il compito di sostituire gradualmente in larga misura lo stato assistenziale. Vanno inoltre potenziate le istituzioni decentrate perché la democrazia esige la partecipazione attiva dei cittadini al dibattito politico e alle scelte che ne conseguono, una partecipazione favorita quando realizzata nell’ambito municipale. Inoltre, il decentramento è indispensabile anche per sostenere le molte piccole e medie imprese locali, che costituiscono una importante componente produttiva del Paese.
In pratica si tratta di mettere in atto la sussidiarietà nelle istituzioni e nell’economia.
In una logica comunitaria, secondo Lasch, si deve porre l’accento sui doveri e sulle responsabilità dei cittadini e non solo parlare di diritti. Lasch vede una minaccia per la democrazia in quel filone di pensiero che aspira a manipolare senza limiti il reale, umano e naturale, in quegli esponenti dell’élite che vivono in un mondo di simboli astratti (dalle quotazioni di borsa dei titoli finanziari, alle immagini visive che permeano la rete) e utilizzano gli strumenti di comunicazione per alterare la percezione di tutto quanto ci circonda. Si tratta di un pericolo ben compreso dalle classi popolari e dalla gente comune che, al contrario di quanto pensano i membri dell’élite, manifestano, nella vita quotidiana, realismo e buon senso.
C’è una indubbia convergenza tra le idee di Lasch e il progetto di società che intendono costruire gli “obiettori di crescita”, essendo il progetto di decrescita orientato a spostare il baricentro dell’economia verso la dimensione locale per favorire il controllo partecipato dei processi di produzione e di distribuzione della ricchezza.
Si possono inoltre intravedere punti di contatto con quella rivoluzione incentrata sui Commons profetizzata da Jeremy Rifkin ed altresì con i radicali cambiamenti dei modi di produzione e di consumo richiesti da quella “transizione ecologica” illustrata da padre Gael Giraud.
In tutti i soggetti citati, c’è il rifiuto dell’attuale turbocapitalismo generato dalla globalizzazione e di un mercato totalizzante e pervasivo che mira a determinare ogni aspetto della vita in funzione della sola crescita del prodotto interno lordo. Un rifiuto che costituisce il punto di partenza per la costruzione di una società più sostenibile, più autonoma e più equa.
Quando, tuttavia, guardiamo ai movimenti “populisti” (o definiti tali) oggi attivi in Europa, li troviamo ben lontani dal fare propri i contenuti progettuali sopra indicati.
Se prendiamo in esame tali movimenti, vediamo che la loro contestazione del sistema si limita ad alcuni aspetti di questo, ma non prende mai di petto l’assetto complessivo del modello sociale neo-liberal (liberista nella sfera economica e libertario-libertino in quella societaria).
I 5 Stelle denunciano la corruzione, l’illegalità, i privilegi della casta (limitata a quella dei politici e degli uomini di banca), mentre esaltano il ruolo della magistratura senza coglierne i molti tratti corporativi che la caratterizzano e la tendenza ad esorbitare dal suo ruolo. Vedono nel reddito di cittadinanza la soluzione per povertà e disoccupazione, ma non precisano dove troveranno le risorse necessarie e quali strumenti fiscali intendano utilizzare a sostegno di una tale iniziativa; inoltre, non delineano alternative al modello di produzione capitalistico.
La Lega focalizza il suo obiettivo di lotta su una immigrazione non gestita, sull’euro, ritenuto una moneta non rispondente alle esigenza del Paese, sulla mancanza di sicurezza, ma fa proprie ricette sostanzialmente liberiste in economia. Inoltre, non vede per nulla le problematiche ambientaliste e nega la natura antropica delle modificazioni climatiche.
Negli altri Paesi le cose non vanno meglio. In Gran Bretagna, l’UKIP ha concentrato i suoi sforzi sulla Brexit, ottenuta la quale, non trova più motivo di esistenza. In Olanda, il partito di Geert Wilders critica la classe politica e demonizza l’Islam, ma per il resto è perfettamente allineato all’ideologia dominante (taglio delle tasse, ridimensionamento dello Stato) a cui accompagna il più spinto progressismo sui temi etici e un drastico antiambientalismo. In Francia, sul movimento di Marine Le Pen pesa negativamente l’ambigua eredità del passato unitamente alle molte contraddizioni non risolte del suo programma. In Germania, Alternative fur Deutschland, accanto a posizioni euroscettiche e identitarie, si fa portavoce del liberismo più spinto. Ci sono poi movimenti – come Syriza, Podemos, il raggruppamento di Mélenchon ed altri – che rifiutano di essere qualificati populisti, ma il cui elettorato si sovrappone a quello di questi ultimi.
Di fronte ai guasti prodotti dalla globalizzazione e dall’assetto neo-liberal, i cosiddetti “populisti”, pur molto differenziati tra loro, si presentano come interpreti delle esigenze degli sconfitti e delle molte vittime dei processi in corso ma, come detto, non sembrano in grado di dar loro risposte adeguate, in quanto agiscono senza far riferimento a un progetto sostenuto da una visione del mondo (o una ideologia) alternativa a quella dominante.
Alcuni (come i 5 Stelle o Podemos) talora sembrano intuirne vagamente i contorni, ma non riescono a definirla. Senza l’elaborazione di un quadro di insieme della situazione, senza analisi appropriate, senza la rimessa in discussione complessiva del modello di civiltà e di società contro la quale pretendono di combattere, essi sono destinati a non vincere mai, o quando avessero un successo elettorale, non saprebbero tradurlo in azioni di governo.
Di ciò, però, non è il caso che si rallegrino i tradizionali partiti (che ancora si definiscono di destra e di sinistra mentre appaiono sempre meno distinguibili), perché anche se i “populisti” dovessero avere delle cadute nei consensi, i voti da loro persi finirebbero in gran parte nell’astensionismo in attesa che nuovi contestatori del sistema si affaccino alla ribalta.
Sono infatti destinati ad aumentare coloro che soffrono dei guasti della globalizzazione, e anche quanti sono spaventati da un mondo non più governato e disorientati dalla mancanza di riferimenti stabili e condivisi. Tutti costoro mettono sotto accusa l’intera élite ai vertici dei Paesi occidentali, sia quella che esercita direttamente il potere (politici dell’area di governo, tecnocrati, alti dirigenti statali, banchieri, grandi industriali, top manager), sia quella che diffonde il verbo del neoliberalismo (opinionisti, giornalisti, intellettuali ben inseriti negli atenei e nell’editoria, esponenti del mondo dello spettacolo, ecc.). Questa élite ha teorizzato i benefici delle frontiere aperte, ma il risultato è andato solo a suo vantaggio, mentre per la maggior parte della gente comune ci sono state precarietà, disoccupazione e perdita di sicurezza economica.
I fautori del pensiero politicamente corretto esaltano tutto ciò che è sovranazionale dicendo che lo Stato-nazione è superato in un mondo sempre più interconnesso, ma così lo stesso esercizio della sovranità popolare viene messo in discussione perché è nell’ambito dello Stato-nazione che parlamenti e governi agiscono. Senza sovranità, c’è spazio per il solo mercato e per poteri lontani, non sintonizzati con le opinioni e le esigenze di chi vive nei vari Paesi.
Cosi si avvantaggiano pochi, sempre gli stessi.
I membri di questa élite ci indicano come traguardo, o come inevitabile destino, la società multietnica, ma (come scrive Federico Rampini in Il tradimento: globalizzazione e immigrazione, le menzogne delle élite) non comprendono che questo termine non vuole dire niente perché nessuno sa quale ne sia l’esito finale, che comunque comporterà vincenti e perdenti sul piano culturale e non solo. Infatti (aggiungo io) i risultati dipendono dalla dimensione dei fenomeni migratori, dai ritmi con cui si producono e dalle provenienze dei migranti, assai differenziati per i valori culturali professati, sovente lontani dai nostri e profondamente radicati.
Inoltre, i partiti tradizionali in sintonia con il verbo dominate, continuano a pensare che spetti al turbocapitalismo, il sistema economico più efficiente (in termini di PIL), definire il cammino per generare sviluppo e ricchezza. Pertanto, confinano l’azione politica in limiti assai ristretti: sostanzialmente mettere un qualche riparo ai guasti sociali ed ambientali che il cambiamento incontrollato produce.
Destra e sinistra, semmai, discutono su quali strumenti utilizzare per favorire la crescita del sistema economico, senza mai metterlo in discussione. Certo, c’è chi tenta, in qualche misura, di ridistribuire la ricchezza prodotta, ma ogni azione condotta negli ambiti nazionali (ove oggi solamente può agire la politica) si rivela sempre inadeguata in un mondo che per tutto il resto è diventato globale.
Purtroppo, finché non si farà più marcato il deterioramento sociale e ambientale per il convergere delle varie crisi (occupazionale, ecologica, climatica, migratoria, di sicurezza, ecc.), difficilmente le forze politiche, sia tradizionali sia “populiste”, prenderanno in considerazione l’esigenza di mutare rotta per affrontare alla radice le cause prime di quelle crisi che oggi tentano di curare con terapie puramente sintomatiche.
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