Le pensioni da riformare



Rodolfo Buat    6 Maggio 2016       0

Il dibattito sulla riforma del sistema pensionistico non sembra decollare in modo concreto. Prevale un approccio per così dire tecnocratico e contabile che ignora il forte impatto sociale del tema. Occorre riconoscere che l'espressione “sicurezza sociale” sembra ormai affidata a un lessico arcaico della politica, e perdendo di vista il nome e il suo significato si finisce per sottovalutare il rischio per la stessa tenuta democratica del disagio della popolazione, soprattutto quando questo riguarda masse crescenti di cittadini. Lo stesso Partito Democratico sembra abbandonare la rappresentanza di tale disagio alla Lega di Salvini che in realtà lo strumentalizza senza entrare nel centro del problema con proposte costruttive.
Occorre riprendere l'iniziativa, partendo proprio da un ridimensionamento della cosiddetta riforma Fornero. È una riforma che non va interpretata come un dogma, al di là delle intenzioni di chi l'ha scritta. È stata una delle vie, la più breve e la più significativa, per un riequilibrio immediato dei conti pubblici che ci ha riportato con diritto a svolgere un ruolo nel condominio europeo da cui rischiavamo di essere esclusi. Ma la cura a medio e lungo termine può e deve prevedere anche altre terapie.
Per superare l'impasse occorrerebbe riportare in campo alcune valutazioni preliminari. Favorire la fuoriuscita di persone anziane dal mondo del lavoro è un'esigenza vitale per la tenuta del sistema economico e sociale. Si tratta infatti di favorire l'occupazione giovanile e il ricambio generazionale, e con esso la spinta al cambiamento, all'innovazione e alla competitività. Questo a maggior ragione in una fase di crescita lenta, dove le ristrutturazioni aziendali impegnano fortemente lo Stato in politiche di sostegno al reddito verso lavoratori anziani di difficile ricollocazione e che potrebbero trovare proprio nel ricorso al pensionamento un ammortizzatore sociale naturale.
Inoltre occorrerebbe fare un po' di pulizia nei numeri. La confusione fra la spesa previdenziale e la spesa assistenziale che trova nell'INPS un ente erogatore non consente un corretto confronto a livello europeo. Tale confusione non è neppure coerente dal punto di vista logico né fiscale. Soprattutto nel quadro del sistema contributivo, la spesa previdenziale grava e deve gravare sui destinatari della prestazione, direttamente o attraverso i datori di lavoro. Viceversa, la spesa assistenziale dovrebbe per sua natura gravare sulla collettività, essendo l'espressione di un principio generale di solidarietà. Caratteristiche proprie hanno i fondi per la cassa integrazione ordinaria e straordinaria, che hanno la struttura di un'assicurazione sociale i cui costi gravano in larga misura sulle categorie di lavoratori e di imprese che ne beneficiano.
Dividere queste diverse categorie di spesa consente un'analisi più adeguata e una proposizione politica più attenta, nonché una più efficace negoziazione a livello europeo delle misure adottate. Non si tratta di poca cosa. Osservava Luciano Gallino (“La Repubblica” del 13 febbraio 2015) che “nel 2014, stando al Bilancio preventivo INPS, vi sono stati trasferimenti da parte dello Stato per oltre 95 miliardi. Per 77 miliardi si tratta di somme imputabili alla Gestione prestazioni temporanee (trattamenti di famiglia, di integrazione salariale — cioè la CIG — di disoccupazione, di malattia ecc.) e alla Gestione degli interventi assistenziali (principalmente oneri per il mantenimento dei salari e per interventi a sostegno della famiglia). Quei 17,7 miliardi restanti rappresentano le spese per invalidi civili (costituite dall'indennità ad personam, più il costo degli accompagnatori e simili). Tali onerosi trasferimenti non hanno nulla a che fare con l'ordinario sistema previdenziale — come si legge in numerosi rapporti dell'Istituto — tuttavia spingono molti commentatori a dire o scrivere che «le pensioni costano allo Stato più di 90 miliardi l'anno»”.
Nella valutazione della spesa pensionistica, poi, non andrebbe dimenticata l'evasione contributiva, di cui una parte rilevante è dovuta proprio a organi ed Enti dello Stato. Un fenomeno che genera deficit nella gestione INPS i cui oneri sono indirettamente a carico di quei lavoratori che devono ritardare l'accesso alla pensione. Inoltre, occorrerebbe prestare più attenzione al diritto soggettivo maturato dal lavoratore per la restituzione dei contributi versati. Gli stessi fanno parte di un investimento assicurativo che non può essere trattato esclusivamente in una logica erariale. Inoltre, essi costituiscono un elemento indiretto della retribuzione collegata alla prestazione data e sono quindi un elemento essenziale del rapporto di lavoro che dovrebbe meritare una qualche tutela in tutte le fasi della vita del lavoratore, a maggior ragione in quella finale.
Sulla base di questi presupposti diventa più agevole trovare soluzioni di sistema che consentano un più agevole accesso alla pensione e una gestione della spesa più attenta socialmente. Già oggi esistono strumenti che hanno consentito la soluzione di problemi personali e che possono diventare punti di riferimento per introdurre maggiore flessibilità. Le donne, ad esempio, hanno mantenuto una corsia preferenziale (giusta) di accesso anticipato alla pensione (sostanzialmente con le vecchie regole), ma con un sacrificio dell'ammontare della stessa che viene calcolata con il metodo contributivo, metodo che nella grande maggioranza dei casi è meno favorevole. È un modello che va perfezionato e che può essere esteso a tutti, rendendo l'accesso alla pensione una scelta più libera: da un lato l'anticipo dell'uscita dal lavoro con una pensione ridotta, oppure il rinvio dell'accesso alla pensione con un calcolo più favorevole della stessa. I maggiori oneri a breve termine sarebbero compensati a medio termine dai risparmi nella spesa pensionistica attesa.
La stessa legge Fornero ha introdotto una forma di pensionamento anticipato (fino a quattro anni) a carico delle imprese cui viene chiesto non solo il pagamento della prestazione previdenziale anticipata (iso-pensione), ma anche il versamento dei contributi previdenziali (anche per il lavoratore), oltre il costo della fidejussione bancaria. Si tratta di una sorta di incentivazione all'esodo dei lavoratori. È possibile però costruire uno strumento parallelo, finalizzato al ricambio generazionale, che preveda, a fronte di nuove assunzioni, una diversa ripartizione dei costi di incentivazione, che coinvolga gli stessi lavoratori (con un sacrificio sul valore dell'assegno) e la previdenza sociale con il riconoscimento dei contributi figurativi. Un metodo che potrebbe facilitare l'accesso allo stato di quiescenza, ma anche costituire un incentivo a identificare percorsi di sostituzione di manodopera. Il prestito previdenziale, e cioè l'anticipazione dell'assegno pensionistico con una restituzione dello stesso (ivi inclusi i costi di anticipazione) può essere una modalità ancora non sperimentata, che non intacca la contabilità pubblica almeno sotto il profilo della competenza a breve e neanche sotto il profilo della cassa a medio-lungo termine.
Certo le ipotesi circolate sui giornali appaiono molto complicate. Prevedono un coinvolgimento di un terzo soggetto, gli istituti di credito, che complicano enormemente la gestione dello strumento e il suo stesso inquadramento normativo. Più semplice e persuasivo pareva il modello proposto dal ministro Giovannini nel precedente governo. Rimangono naturalmente al centro del problema una serie di casi particolari, quali quelli dei cosiddetti lavori usuranti, delle condizioni di inabilità e invalidità, delle situazioni di disoccupazione involontaria. Si tratta qui di affinare e in gran parte di estendere le condizioni privilegiate di accesso alla pensione. Ma forse la modifica più sensibile riguarda la definizione di una età sia anagrafica e di un'età contributiva certe di accesso alla pensione di vecchiaia o di anzianità. Ogni cittadino ha il diritto di poter programmare la propria vita (gli ultimi anni) senza dover lottare con la statistica e senza doversi tenere aggiornato sulla speranza di vita degli italiani. Senza contare che quella che entra nelle statistiche spesso non è una vita pienamente vissuta, ma una triste e dolorosa sopravvivenza.
Questi esempi di interventi sull'accesso alla pensione non devono tuttavia far dimenticare (come di fatto avviene) la necessità di porre mano a una riforma normativa del sistema di gestione della previdenza. Da un lato esiste il percorso interrotto di riduzione della spesa delle strutture previdenziali attraverso la fusione degli enti. Un percorso interrotto anche la dove la fusione è avvenuta, ma l'integrazione organizzativa stenta a decollare. Dall'altro (collegato in parte al precedente) esiste la quantità infinita di regole che definiscono la posizione previdenziale del cittadino, con metodi differenziati, spesso incerti e talvolta iniqui, di ricostituzione della propria storia contributiva, attraverso le varie forme di ricongiunzione o di totalizzazione. Si tratta di regole spesso figlie di situazioni specifiche e anacronistiche, quando non di sviste del legislatore, che poco hanno a che vedere con i principi di corretta gestione della spesa pubblica. Sarebbe bene che almeno qui l'intervento fosse ad occhi chiusi: armonizzare sotto il profilo del diritto alla pensione le contribuzioni versate (commisurando sulle stesse la misura dell'assegno pensionistico) parificando a tal fine le diverse gestioni senza far gravare sul lavoratore gli oneri di compensazione.
Si tratterebbe di emancipare il lavoratore anziano dalla sudditanza verso le burocrazie centrali e di riconoscergli un diritto pieno di cittadinanza. Sì, forse una piccola cosa.


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