Avvisi di garanzia, intercettazioni e privacy



    13 Aprile 2015       0

“Non ci si dimette per un avviso di garanzia”. In altre occasioni, affermazioni e iniziative di Matteo Renzi mi hanno lasciato perplesso o addirittura del tutto contrario: in particolare, il mio dissenso –per quel che vale – tocca ampiamente il campo delle riforme istituzionali e costituzionali. Ma su quel tema specifico il mio pensiero non è diverso dal suo. E concordo anche su quella che può apparire meno facilmente digeribile, tra le motivazioni avanzate o adombrate dal Presidente del Consiglio a sostegno dell'affermazione sopra riprodotta. Pure a me sembra infatti che ad ammettere il contrario si finisce con l'accettare che siano le Procure a dettare la composizione dell'Esecutivo; e in qualche caso è accaduto o si è rischiato che accadesse. Nell'era berlusconiana a dire cose del genere si passava facilmente per utili idioti (se non peggio), capaci soltanto di agevolare il gioco di chi, dalla più alta poltrona di governo, non perdeva occasione di ridurre tutta la delicata e complessa questione del rapporto tra politica e giustizia a una personale lotta in difesa dei propri interessi, condotta senza esclusione di colpi soprattutto in vista di obiettivi di sostanziale, permanente impunità. Eppure era giusto continuare a dirle, quelle cose, anche allora: ovviamente, nel quadro di prese di posizione che nulla concedessero alle battaglie globali del garantismo peloso del Cavaliere e dei suoi amici. Possiamo sperare che oggi sia più facile discuterne liberamente senza dover essere considerati… amici di vecchi o nuovi giaguari? Restando a considerazioni di procedura penale, non si dovrebbe dimenticare che l'avviso – intervenendo quando si è ancora nella fase delle indagini del pubblico ministero, preliminari al vero e proprio processo penale – è stato concepito e ha il suo senso più autentico come strumento comunicativo di tutela dell'indagato (non per nulla ha il nome tecnico, e più appropriato, di “informazione di garanzia”). È dunque assurdo che invece lo si sia fatto diventare qualcosa su cui costruire, prima ancora che in una vicenda processuale vi sia stato un reale contraddittorio tra accusa e difesa, ogni genere di anticipate condanne mediatiche di responsabilità penale. Premesso tutto ciò, non si può negare che il quadro si complica sul piano della distinzione –disegnata in termini assai rigidi anche da Renzi – tra la responsabilità penale e quella forma di responsabilità etica e politica che può (e in certe situazioni deve o dovrebbe) spingere alle dimissioni un gestore della cosa pubblica, se coinvolto in vicende imbarazzanti seppur non costituenti reato. Da questo punto di vista è ancora giusto, in via di principio, quanto il premier osserva circa la possibilità che un “passo indietro” si legittimi o addirittura sia moralmente e politicamente doveroso a prescindere da qualsiasi accusa di rilevanza penale. Ma è altrettanto vero che di fatto si configurano spesso degli intrecci – talora fisiologici o comunque inevitabili, talaltra pericolosamente manovrabili ad arte – tra l'uno e l'altro tipo di responsabilità. Così, a me sembra che la sensibilità di una persona colpita da gravi accuse penali dovrebbe spingere a serie valutazioni sull'opportunità di un “passo indietro” quando certi dati a lei sfavorevoli emergano o resistano in misura consistente anche dopo il vaglio del contraddittorio processuale. E chi sta insieme a quella persona nel Governo o in un partito non dovrebbe mancare di ricordarle, anzi di pretendere, quella sensibilità. La spinta, poi, dovrebbe farsi più pressante, quanto più ci si avvicini all'eventualità di una condanna definitiva. A inficiare irrimediabilmente questa mia convinzione non mi pare persuasivo l'argomento che si trae spesso dalla presunzione d'innocenza, consacrata dalle convenzioni internazionali fino a che la colpevolezza non sia legalmente provata, e da quella che l'art. 27 della Costituzione configura, in modo apparentemente meno perentorio, come una sorta di presunzione di mera “non-colpevolezza”, dichiarandola però operante fino alla sentenza definitiva. È invero noto che né l'una né l'altra presunzione impediscono l'adozione, nel corso del processo, persino di misure limitative di libertà dell'accusato, fino alla custodia in carcere, se vi sono specifiche esigenze di cautela: perché scandalizzarsi, allora, se, proprio sulle basi “processuali penali” di cui si è sopra detto, si riconosce che l'appello al senso di responsabilità etico-politica può farsi sentire in modo via via più pressante? Forse, però, il punto più delicato dell'intera questione è ancora un altro, ed è messo in evidenza dal dilagare delle divulgazioni “à gogo” delle trascrizioni di conversazioni intercettate nel corso di indagini del pubblico ministero (sia pure con l'autorizzazione del giudice). Non c'è bisogno di ripetere che le intercettazioni sono uno strumento prezioso e spesso decisivo, specialmente – ma non soltanto – quando si ha a che fare con la criminalità organizzata o con il terrorismo. È però importante che se ne faccia un uso equilibrato, e sarebbe necessaria tutta una serie di filtri a vario livello per evitare che da indebite anticipazioni (totali o parziali) derivino lesioni a garanzie come la presunzione d'innocenza e il diritto di difesa degli indagati; nonché alla loro privacy, soprattutto a quella di chi indagato non è, ma finisce egualmente coinvolto nella rete degli ascolti degli intercettatori (talora senza neppure essere tra gli interlocutori diretti delle conversazioni captate). Certo, tutti sembrano da tempo d'accordo nel deplorare che si diano in pasto a una curiosità spesso morbosa colloqui su fatti di natura strettamene privata; eppure si continua allegramente a ignorare questo canone, oggi lasciato sostanzialmente alla discrezione, ma anche alla discrezionalità, dei giornalisti, sebbene al riguardo la Corte europea dei diritti dell'uomo si sia talora mostrata custode particolarmente severa del diritto alla riservatezza delle persone. Forse è opportuno ricordare che a suo tempo, del gran numero di ricorsi al più vario titolo proposti a Strasburgo contro la conduzione dei processi svoltisi in Italia a carico dell'ex-premier Bettino Craxi, e per lo più dichiarati infondati, solo un paio trovarono accoglimento presso i giudici europei: uno di essi era appunto quello con cui si censurava la mancanza di argini efficaci, nel nostro sistema giudiziario, alla pubblicazione di un variegato gossip ricavato da intercettazioni telefoniche e concernente persone o vicende del tutto estranee ad accuse di carattere penale. Più legittimo, un dilemma che si profila quando le intercettazioni coinvolgano direttamente soggetti che esercitano un ruolo pubblico e attengano alla gestione, da parte loro, di beni o servizi, oppure investano chi – come i banchieri o i grandi imprenditori – è comunque in grado di esercitare un forte potere, diretto o indiretto, su tale gestione. In casi del genere, si può dire altrettanto ingiustificata la pubblicazione di brani di conversazioni, pur prive di rilevanza penale, ma significative per la ricostruzione della personalità dell'uomo politico, del manager o dell'uomo d'affari in questione? Qui, è forte – e non priva di buone ragioni a sostegno – la tendenza a ritenere che debba comunque prevalere l'interesse pubblico alla pubblicazione, affinché i cittadini possano trarne elementi per le loro legittime valutazioni sul grado di fiducia collettiva che deve condizionare il potere affidato a determinate persone. E la stessa Corte europea ha più volte affermato che gli uomini politici e altre persone che utilizzano solitamente la pubblica comunicazione anche per aumentare la propria popolarità – ivi comprese le “stelle” del mondo dello spettacolo o dello sport – devono correlativamente accettare una riduzione dell'area di riservatezza loro spettante, rispetto a quella che andrebbe integralmente tutelata quando si tratti di comuni membri della collettività. Ad accettare senza riserve e senza limiti una prassi sostanzialmente poggia
nte su tale tesi, resta il pericolo che ne rimbalzi un'ombra sulle stesse iniziative penali dei magistrati: nel senso di indurre a scorgere, a torto o a ragione, in talune di esse proprio un rapporto strumentale rispetto al clamore scaturente dalla possibilità di emersione di dati privi di rilevanza penale ma imbarazzanti per qualche nota personalità. Si corre insomma il rischio di far pensare che il magistrato inquirente ipotizzi, anche soltanto incautamente, una responsabilità penale e avvii un'indagine destinata poi a rivelarsi infruttuosa in quanto tale, ma utilizzata o utilizzabile da altri proprio per evidenziare una responsabilità etico-politica: a mio modo di vedere, ciò non sarebbe precisamente un bene né per l'immagine né per il funzionamento corretto della giustizia. Sfiducia aprioristica nella magistratura? No. Al contrario, ho il desiderio di vederla sempre, il più possibile, immune da ogni sospetto: come essa, nella stragrande maggioranza anche dei suoi esponenti venuti in primo piano per inchieste e processi “sensibili”, ha sicuramente meritato di essere e di rimanere. (Questo articolo è comparso in prima pubblicazione su www.c3dem.it)


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