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Le pensioni da riformare
 
di Rodolfo Buat
 

Il dibattito sulla riforma del sistema pensionistico non sembra decollare in modo concreto. Prevale un approccio per così dire tecnocratico e contabile che ignora il forte impatto sociale del tema. Occorre riconoscere che l’espressione “sicurezza sociale” sembra ormai affidata a un lessico arcaico della politica, e perdendo di vista il nome e il suo significato si finisce per sottovalutare il rischio per la stessa tenuta democratica del disagio della popolazione, soprattutto quando questo riguarda masse crescenti di cittadini.
Lo stesso Partito Democratico sembra abbandonare la rappresentanza di tale disagio alla Lega di Salvini che in realtà lo strumentalizza senza entrare nel centro del problema con proposte costruttive.
Occorre riprendere l’iniziativa, partendo proprio da un ridimensionamento della cosiddetta riforma Fornero. È una riforma che non va interpretata come un dogma, al di là delle intenzioni di chi l’ha scritta. È stata una delle vie, la più breve e la più significativa, per un riequilibrio immediato dei conti pubblici che ci ha riportato con diritto a svolgere un ruolo nel condominio europeo da cui rischiavamo di essere esclusi. Ma la cura a medio e lungo termine può e deve prevedere anche altre terapie.
Per superare l’impasse occorrerebbe riportare in campo alcune valutazioni preliminari.
Favorire la fuoriuscita di persone anziane dal mondo del lavoro è un’esigenza vitale per la tenuta del sistema economico e sociale. Si tratta infatti di favorire l’occupazione giovanile e il ricambio generazionale, e con esso la spinta al cambiamento, all’innovazione e alla competitività. Questo a maggior ragione in una fase di crescita lenta, dove le ristrutturazioni aziendali impegnano fortemente lo Stato in politiche di sostegno al reddito verso lavoratori anziani di difficile ricollocazione e che potrebbero trovare proprio nel ricorso al pensionamento un ammortizzatore sociale naturale.

Inoltre occorrerebbe fare un po’ di pulizia nei numeri.
La confusione fra la spesa previdenziale e la spesa assistenziale che trova nell’INPS un ente erogatore non consente un corretto confronto a livello europeo. Tale confusione non è neppure coerente dal punto di vista logico né fiscale. Soprattutto nel quadro del sistema contributivo, la spesa previdenziale grava e deve gravare sui destinatari della prestazione, direttamente o attraverso i datori di lavoro. Viceversa, la spesa assistenziale dovrebbe per sua natura gravare sulla collettività, essendo l’espressione di un principio generale di solidarietà. Caratteristiche proprie hanno i fondi per la cassa integrazione ordinaria e straordinaria, che hanno la struttura di un’assicurazione sociale i cui costi gravano in larga misura sulle categorie di lavoratori e di imprese che ne beneficiano.
Dividere queste diverse categorie di spesa consente un’analisi più adeguata e una proposizione politica più attenta, nonché una più efficace negoziazione a livello europeo delle misure adottate.
Non si tratta di poca cosa. Osservava Luciano Gallino (“La Repubblica” del 13 febbraio 2015) che “nel 2014, stando al Bilancio preventivo INPS, vi sono stati trasferimenti da parte dello Stato per oltre 95 miliardi. Per 77 miliardi si tratta di somme imputabili alla Gestione prestazioni temporanee (trattamenti di famiglia, di integrazione salariale — cioè la CIG — di disoccupazione, di malattia ecc.) e alla Gestione degli interventi assistenziali (principalmente oneri per il mantenimento dei salari e per interventi a sostegno della famiglia). Quei 17,7 miliardi restanti rappresentano le spese per invalidi civili (costituite dall'indennità ad personam, più il costo degli accompagnatori e simili). Tali onerosi trasferimenti non hanno nulla a che fare con l'ordinario sistema previdenziale — come si legge in numerosi rapporti dell'Istituto — tuttavia spingono molti commentatori a dire o scrivere che «le pensioni costano allo Stato più di 90 miliardi l'anno»”.
Nella valutazione della spesa pensionistica, poi, non andrebbe dimenticata l’evasione contributiva, di cui una parte rilevante è dovuta proprio a organi ed Enti dello Stato. Un fenomeno che genera deficit nella gestione INPS i cui oneri sono indirettamente a carico di quei lavoratori che devono ritardare l’accesso alla pensione.
Inoltre, occorrerebbe prestare più attenzione al diritto soggettivo maturato dal lavoratore per la restituzione dei contributi versati. Gli stessi fanno parte di un investimento assicurativo che non può essere trattato esclusivamente in una logica erariale. Inoltre, essi costituiscono un elemento indiretto della retribuzione collegata alla prestazione data e sono quindi un elemento essenziale del rapporto di lavoro che dovrebbe meritare una qualche tutela in tutte le fasi della vita del lavoratore, a maggior ragione in quella finale.

Sulla base di questi presupposti diventa più agevole trovare soluzioni di sistema che consentano un più agevole accesso alla pensione e una gestione della spesa più attenta socialmente.
Già oggi esistono strumenti che hanno consentito la soluzione di problemi personali e che possono diventare punti di riferimento per introdurre maggiore flessibilità.
Le donne, ad esempio, hanno mantenuto una corsia preferenziale (giusta) di accesso anticipato alla pensione (sostanzialmente con le vecchie regole), ma con un sacrificio dell’ammontare della stessa che viene calcolata con il metodo contributivo, metodo che nella grande maggioranza dei casi è meno favorevole. È un modello che va perfezionato e che può essere esteso a tutti, rendendo l’accesso alla pensione una scelta più libera: da un lato l’anticipo dell’uscita dal lavoro con una pensione ridotta, oppure il rinvio dell’accesso alla pensione con un calcolo più favorevole della stessa. I maggiori oneri a breve termine sarebbero compensati a medio termine dai risparmi nella spesa pensionistica attesa.
La stessa legge Fornero ha introdotto una forma di pensionamento anticipato (fino a quattro anni) a carico delle imprese cui viene chiesto non solo il pagamento della prestazione previdenziale anticipata (iso-pensione), ma anche il versamento dei contributi previdenziali (anche per il lavoratore), oltre il costo della fidejussione bancaria. Si tratta di una sorta di incentivazione all’esodo dei lavoratori. È possibile però costruire uno strumento parallelo, finalizzato al ricambio generazionale, che preveda, a fronte di nuove assunzioni, una diversa ripartizione dei costi di incentivazione, che coinvolga gli stessi lavoratori (con un sacrificio sul valore dell’assegno) e la previdenza sociale con il riconoscimento dei contributi figurativi. Un metodo che potrebbe facilitare l’accesso allo stato di quiescenza, ma anche costituire un incentivo a identificare percorsi di sostituzione di manodopera.
Il prestito previdenziale, e cioè l’anticipazione dell’assegno pensionistico con una restituzione dello stesso (ivi inclusi i costi di anticipazione) può essere una modalità ancora non sperimentata, che non intacca la contabilità pubblica almeno sotto il profilo della competenza a breve e neanche sotto il profilo della cassa a medio-lungo termine.
Certo le ipotesi circolate sui giornali appaiono molto complicate. Prevedono un coinvolgimento di un terzo soggetto, gli istituti di credito, che complicano enormemente la gestione dello strumento e il suo stesso inquadramento normativo. Più semplice e persuasivo pareva il modello proposto dal ministro Giovannini nel precedente governo.
Rimangono naturalmente al centro del problema una serie di casi particolari, quali quelli dei cosiddetti lavori usuranti, delle condizioni di inabilità e invalidità, delle situazioni di disoccupazione involontaria. Si tratta qui di affinare e in gran parte di estendere le condizioni privilegiate di accesso alla pensione.
Ma forse la modifica più sensibile riguarda la definizione di una età sia anagrafica e di un’età contributiva certe di accesso alla pensione di vecchiaia o di anzianità. Ogni cittadino ha il diritto di poter programmare la propria vita (gli ultimi anni) senza dover lottare con la statistica e senza doversi tenere aggiornato sulla speranza di vita degli italiani. Senza contare che quella che entra nelle statistiche spesso non è una vita pienamente vissuta, ma una triste e dolorosa sopravvivenza.

Questi esempi di interventi sull’accesso alla pensione non devono tuttavia far dimenticare (come di fatto avviene) la necessità di porre mano a una riforma normativa del sistema di gestione della previdenza.
Da un lato esiste il percorso interrotto di riduzione della spesa delle strutture previdenziali attraverso la fusione degli enti. Un percorso interrotto anche la dove la fusione è avvenuta, ma l’integrazione organizzativa stenta a decollare.
Dall’altro (collegato in parte al precedente) esiste la quantità infinita di regole che definiscono la posizione previdenziale del cittadino, con metodi differenziati, spesso incerti e talvolta iniqui, di ricostituzione della propria storia contributiva, attraverso le varie forme di ricongiunzione o di totalizzazione. Si tratta di regole spesso figlie di situazioni specifiche e anacronistiche, quando non di sviste del legislatore, che poco hanno a che vedere con i principi di corretta gestione della spesa pubblica. Sarebbe bene che almeno qui l’intervento fosse ad occhi chiusi: armonizzare sotto il profilo del diritto alla pensione le contribuzioni versate (commisurando sulle stesse la misura dell’assegno pensionistico) parificando a tal fine le diverse gestioni senza far gravare sul lavoratore gli oneri di compensazione.
Si tratterebbe di emancipare il lavoratore anziano dalla sudditanza verso le burocrazie centrali e di riconoscergli un diritto pieno di cittadinanza. Sì, forse una piccola cosa.


Andrea Griseri - 2016-05-13
Grazie per la chiarezza. Dovremmo impostare un'azione per spingere alla trasparenza e all'onestà intellettuale quando si affronta la questione. Le unioni civili sono legge: Boeri dice che le reversibilità (ma un paio di mesi fa il governo non aveva messo in forse proprio le pensioni di reversibilità? Mah...) non peserà più che tanto sui conti. Vedremo. Voglio scacciare dalla mia mente affumicata dal pessimismo la visione di eserciti di giovani badanti in salute che trascinano all'altar... ops all'anagrafe il vecchietto rimbambito e dopo il ritorno di costui alla casa del Padre se la vanno a godere per 50 o 60 anni nei paesi di origine ben provviste di patrimoni familiari e assegni di reversibilità: ridendosela dei lavoratori italiani che dopo 40 anni e più di fatica tirano la cinghia per pagare il debito contratto con le banche (smpre loro!) per avere osato anticipare la quiescenza (o esservi stati costretti dal datore di lavoro ansioso di ringiovanire la truppa). Troppo pessimistica? demagogica? Sarà l'ora tarda, scusate.
Giuseppe Davicino - 2016-05-12
Le puntuali considerazioni di Rodolfo, che evidenziano quanto la politica fatichi a seguire il buon senso, chiamano in causa il rapporto tra sistema previdenziale e sviluppo, sul quale si gioca la sostenibilità sociale del contributivo. Senza sciogliere il nodo dei vincoli europei, e dell'austerità che essi richiedono, non torneremo a crescere. Ed il contributivo è un sistema giusto ma non equo, privo dei meccanismi perequativi, di cui si è troppo abusato in passato, che però consentivano a tutti di avere una pensione dignitosa. Senza crescita e con gli attuali ritmi di aumento delle disuguaglianze, si prospetta il ritorno ad una indigenza diffusa tra la popolazione anziana. Concordo con chi ha sottolineato che serve un cambio di paradigma. La riforma Dini e successive riflettono un mondo del lavoro novecentesco. L'urgenza per il futuro è invece quella di assicurare la sostenibilità sociale delle prestazioni pensionistiche pubbliche e non più solo la loro sostenibilità economica.
Beppe Mila - 2016-05-09
Questo è buon senso ! E soprattutto è scritto in modo articolato che non lascia adito a dubbi. da condividerne ogni singola parola . Domanda birichina : ma se in tanti la pensiamo così e tanti di area pre - post - durante PD , come è che non ci riesce a far sentire?
giuseppe cicoria - 2016-05-08
Boeri ogni giorno si sforza di apparire sui mass-media seminando insicurezza e demagogia. L'analisi fatta è perfetta. Uno studioso del settore di cui non ricordo il nome sulla 7 ha inquadrato meglio la situazione: la tecnologia che avanza consente maggiore produzione con meno occupati, Nel lungo periodo si avranno meno occupati che producono beni più che sufficienti a soddisfare la domanda. Ciò vuol dire che che i versamenti diminuiranno e Boeri si agiterà sempre di più inventandosi altre "pensioni d'oro farlocche". Sarà invece necessario rimpolpare il fondo dell'INPS tassando di più la "produzione dei beni". Ciò significa ottenere risorse sia per migliorare le pensioni minime sia per concedere il cosiddetto salario sociale a chi non possiede nulla. Dulcis in fundo: "l'intelligente" spedizione delle cosiddette buste gialle ha prodotto panico , rassegnazione e convincimento tra una estesa platea di lavoratori che dopo 40 o 5o anni di lavoro (quasi sempre non continuativo) si maturerà una pensione misera. Molti si convinceranno che non vale la pena versare i contributi. Meglio cercare altre strade....! I contributi con questa bella idea che è corretta ma...., causerà maggiore evasione contributiva o inutilità di adesione all'INPS con la conseguenza di accelerare il decadimento dei conti dell'Ente ed un disastro sociale.
Carlo Baviera - 2016-05-07
Condivido tutto quanto è stato esposto. Aggiungo, chiedendo di non coprirmi di insulti, che un altro aspetto se si parla di pensioni come "sicurezza sociale" il sistema contributivo è sbagliato. Per tanto che si versi e per tanto che si lavori non si potrà mai ottenere una pensione adeguata a tirare avanti dignitosamente. Il sistema prevedeva che si integrasse la parte pubblica con versamenti privati, ma per fare questo ci vorrebbero stipendi molto alti per consentire ai lavoratori di provvedere: cosa che ovviamento oggi non è possibile, e non lo sarà mai! La questione è aumentare l'occupazione, in ogni modo, per far versare i contributi da molti. Perchè tutto può funzionare solo in un sistema solidaristico, dove chi versa oggi sostiene i pensionati di oggi. Pensioni, in alcuni casi da rivedere, eccessi da limitare; ma la risposta non può che essere in un lavoro e uno stipendio dignitoso per tutti, e pensioni (dopo 40 anni di lavoro. Credo che non si possa andare oltre!) dignitose per consentire un vecchiaia serena. So che si dirà: ma dove si prendono i soldi? Favorendo gli investimenti (anche con meno burocrazia e una giustizia più rapida) e con interventi anche pubblici in settori che creino occupazione.
maurizio perinetti - 2016-05-06
Bravo Rodolfo. Un intervento chiaro sul tema pensioni, che invece pare tutti vogliano rendere sempre più confuso. Un intervento nel solco della nostra tradizione di cultura politica e sociale. Ma temo assai che oggi di un coerente orientamento politico e sociale importi proprio a pochi.