Origini e sviluppi del “politicamente corretto”



Giuseppe Ladetto    2 Luglio 2020       5

Sentiamo frequentemente parlare di “politicamente corretto”, sovente con una connotazione negativa. Che cosa esattamente significa ? Dove e quando è nata tale espressione?

L'origine pare riconducibili agli anni Trenta in ambienti intellettuali statunitensi, ma è negli anni Settanta che iniziò a prendere piede nelle università americane. In Europa, è giunto più tardivamente.

L'obiettivo del politicamente corretto era cancellare consuetudini linguistiche ritenute offensive o discriminatorie nei confronti degli emarginati e dei gruppi minoritari di qualsiasi tipo. Di fronte alle tensioni e alle divisioni che minavano (e minano) la società, si immaginava che tali divisioni profonde potessero essere superate migliorando il linguaggio. Per gli esclusi, il beneficio auspicato sarebbe consistito nella promozione dell’autostima e della fiducia in se stessi e di conseguenza nella implementazione del senso di responsabilità unitamente alla capacità di iniziativa.

In un primo tempo, l'attenzione era rivolta ai portatori di menomazioni fisiche o intellettive. Non dovevano più essere utilizzate parole come cieco, zoppo, ritardato mentale, parole ritenute contrassegnate da un implicito carattere negativo, ma sostituirle con denominazioni neutre, come “non vedente”, “diversamente abile” e via dicendo. Il ricorso a nuove definizioni si è esteso a quelle attività che potevano apparire marginali o subalterne, svolte da persone di bassa condizione sociale, come “spazzino”, “bidello”, “portinaio” ecc. sostituite da dizioni tecniche quali “operatore ecologico”, “collaboratore scolastico” ecc. che delineano un maggiore e più nobile profilo professionale. Ovviamente fra le minoranze discriminate da tutelare anche sul piano linguistico, c'erano gli omosessuali e i transessuali ai quali venivano e ancor oggi vengono indirizzate le denominazioni più turpi, un comportamento diffuso, difficile da sradicare. Inoltre, negli Stati Uniti, dove atteggiamenti apertamente razzisti sono storicamente molto presenti, il vocabolario doveva necessariamente investire tale ambito. Fino a questo punto non ci sarebbe nulla di negativo da imputare al politicamente corretto.

Tuttavia esso, ben presto, non è rimasto solo più un modo di esprimersi e di comportarsi adottato da singoli o da gruppi di persone, ma è diventato uno strumento per sostenere e realizzare una nuova visione del mondo fortemente ideologizzata, avendo messo in campo atteggiamenti sempre più intolleranti verso tutto ciò che fino a ieri era ritenuto un comportamento, o un canone, condiviso dalla quasi totalità della popolazione.

È stato rilevato che in tal modo il politicamente corretto contraddice i propositi iniziali perché, invece di promuovere pace sociale e tolleranza (come sostiene di voler fare), fornisce continui pretesti di conflitto, trovando aspetti politicamente scorretti ovunque. Lo aveva già compreso Zygmunt Bauman quando ha scritto che la logica delle guerre di riconoscimento, condotte da gruppi minoritari che si ritengono marginalizzati o esclusi, li istiga a radicalizzare le differenze, e rischia di sfociare nel fondamentalismo e nel settarismo, finendo per promuovere divisione, separazione e rottura di ogni dialogo.

Oggi, infatti, le cose hanno cominciato a degenerare: sono sempre di più gli ambiti in cui non si può dire alcunché senza scatenare divieti e provocare accuse, che di fatto introducono una censura lesiva della libertà di parola e di espressione.

Su questa strada, il politicamente corretto giunge a mettere sotto processo la storia, che viene ridotta a una sequenza di fatti, sempre decontestualizzati, intessuti di odio, discriminazioni e violenza. In tal modo, il passato diventa negativo di per se stesso. La sua cancellazione e il disprezzo del mondo da cui proveniamo ne sono la conseguenza.

In questi giorni, abbiamo visto mettere apertamente in atto tali propositi. “La storia va vista con gli occhi del presente” ha dichiarato il sindaco di Richmond per giustificare la iconoclastia imperversante. Sadiq Kahn, sindaco di Londra, si propone di censire le statue della città per stabilire con la morale di oggi quali personaggi del passato siano degni di essere celebrati con monumenti e quali no. Intanto, si decapitano le statue di Cristoforo Colombo e si imbratta quella di Winston Churchill. Tutto ciò mostra quanto sia ormai dilagante a livello di massa il politicamente corretto. Su questa strada, c'è il rischio di giungere ai processi in piazza e alle liste di proscrizione con l'adozione di modalità di azione che ripropongono, in qualche misura, quanto a suo tempo si è visto nella “rivoluzione culturale” maoista con la distruzione delle testimonianze del passato (rivoluzione di cui, in occidente, molti giovani e parecchi intellettuali avevano manifestato entusiastica approvazione).

In questo percorso di rifiuto del passato, tipico delle ideologie totalitarie, entra nel mirino anche il patrimonio artistico e culturale della civiltà occidentale. Con il pretesto di non creare disagio alle minoranze (immigrati, omosessuali, islamici ecc.) si chiede la messa al bando di testi e opere della grande cultura europea, ritenuta maschilista, eurocentrica, bianca, omofobica, razzista, passatista ecc. Un caso che ci riguarda da vicino è rappresentato da una iniziativa di Gherush92. Comitato per i diritti umani (una associazione italiana che si fregia di essere “consulente speciale del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite”) che ha richiesto l'eliminazione della Divina Commedia dai programmi delle scuole di ogni grado perché sarebbe piena di contenuti antisemiti, islamofobi e omofobi.

A giustificazione delle censure e delle misure repressive invocate, si adducono sovente motivazioni di uguaglianza e di parità. Ma si tratta di un pretesto. L'abolizione dei termini “padre” e “madre”, “marito” e “moglie” (che disturberebbero i membri delle “nuove famiglie”) mira a marginalizzare o rimuovere i modi di vita trasmessi dalle passate generazioni e i riferimenti in cui si riconosce ancora una parte consistente, se non la maggioranza, dei cittadini. Il politicamente corretto sembra, in realtà, voler capovolgere la gerarchia dei valori: tutto ciò che fino a oggi è stato marginale deve essere imposto come norma generale per sostituire quanto avrebbe indebitamente occupato uno spazio privilegiato.

Lo possiamo vedere anche nella questione dei generi, molto presente nel discorso politicamente corretto. L'obiettivo delle rivendicazioni di molti gruppi di femministe militanti non è più la difesa delle donne e la ricerca di eguaglianza fra i sessi sul terreno dei diritti e delle condizioni reali, ma è diventato il rovesciamento dei rapporti di potere per sostituire con il matriarcato lo storico patriarcato ormai in pieno declino. Il femminismo viene esaltato e il maschilismo demonizzato, mentre si tratta di due modi unilaterali (quindi di parte) di vedere le cose, due approcci non interessati a una composizione equilibrata e giusta delle controversie. Similmente, in tutti gli ambiti, i fautori del politicamente corretto sostituiscono al dibattito e alla discussione politica (necessari per gestire i conflitti e comporre gli intessi delle varie parti) una crociata contro quanto ritengono essere il male, in nome della loro concezione del bene.

Il politicamente corretto non avrebbe lo spazio e la diffusione che ha conquistato oggi, se non avesse trovato sostegno in ambienti culturali, mediatici e politici. Da parte di chi e perché?

Sul finire del XX secolo, abbiamo assistito al verificarsi di una rilevante frattura con l'assetto politico, economico e culturale della società precedente. Ha preso avvio quel processo di globalizzazione che, mosso principalmente dagli interessi della finanza e delle multinazionali, ha come suo primo obiettivo la creazione di un mondo omologato in cui le logiche di mercato non incontrino ostacoli posti da confini, identità, culture, appartenenze. Nel contempo, è crollato il socialismo reale ed è entrata in crisi quell'area progressista di impronta marxista che affidava alla lotta di classe il compito di creare una società più giusta e ugualitaria. I progressisti orfani del marxismo hanno fatto proprio quel complesso di valori “borghesi” di derivazione illuminista che caratterizza le società avanzate neoliberali, e, subito, si sono messi in cerca di una nuova veste che li caratterizzasse come “sinistra”. Così (mi permetto di parafrasare Bauman) hanno abbandonato l’aspirazione di costruire un mondo più giusto e, in sua vece, hanno adottato il riferimento a quei diritti civili che debbono essere estesi e sviluppati, nella ricerca di nuove, soddisfacenti forme di coabitazione in una società sempre più differenziata.

Su questo terreno, e su quello del cosmopolitismo e del multiculturalismo, i nuovi progressisti e i fautori della globalizzazione si sono incontrati, e hanno adottato le parole d'ordine del politicamente corretto, rivelatesi funzionali ai loro progetti.

Oggi, possiamo vedere che logiche riconducibili al politicamente corretto sono presenti, in modo più o meno esplicito e consapevole, nella polemica politica, nell'informazione, e nelle enunciazioni di movimenti di varia natura, spontanei o meno, con l'aggressività e il manicheismo che sono propri di questa ideologia. La campagna iconoclasta in corso, intrisa di fanatismo, ne è una manifestazione, sia pure in forme portate all'estremo.


5 Commenti

  1. Il politicamente corretto, estremizzato, come esemplarmente spiegato da Giuseppe Ladetto, è divenuto il volto del Male nel XXI secolo, un nuovo totalitarismo da neutralizzare finché si è ancora in tempo.
    I cattolici in particolare si devono dare una sveglia. La raccapricciante teoria gender è insegnata nella scuola pubblica, in sfregio al comune sentimento popolare. La legge Zan – Scalfarotto in discussione in parlamento sull’omotransfobia è liberticida e crea i presupposti giuridici per la messa al bando del Cristianesimo. Senza contare che iniziano a trapelare informazioni inquietanti sull’effettiva finalità del vaccino globale contro il “Covid” (a partire dal nome esoterico affibbiato al virus, senza ragione scientifica, dal discusso direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesu) che punterebbe a modificare il dna umano per scopi totalitari, non a sconfiggere un virus che non c’è più.
    Ladetto, inoltre, descrive molto bene a cosa è ridotta la sinistra oggi, almeno i suoi vertici globali. A cominciare dai Democratici americani. Hanno rinunciato alla giustizia sociale per seguire l’ideologia settaria del politically correct, creata su misura degli interessi della super-casta globalista, se va bene l’1% della popolazione mondiale.
    Cari amici Popolari, noi spesso richiamiamo e ci riconosciamo nel motto degasperiano del centro che guarda a sinistra: ma senza dare risposte ai problemi indicati da Ladetto, come è possibile condividere ancora un progetto comune con una sinistra così snaturata come quella attuale? L’alleanza fra il centro e la sinistra va rifondata su nuove basi, aiutando quella parte di sinistra ancora sana e radicata nel popolo, a riprendere il sopravvento sui vertici attuali dei partiti progressisti.

  2. Dobbiamo cominciare a parlare di “idiotic correctness”. Dietro i fondamentalismi e i totalitarismi troviamo quasi sempre fanatismo e stupidità. Un esempio, come ben dimostra Ladetto, di giusta causa (il rispetto delle minoranze o delle persone sfavorite dalla sorte) che si tramuta nel proprio contrario. Come non si rendono conto gli imbecilli corretti, con la loro tracotanza ignorante, che presto genereranno un reazione uguale e contraria? A soffrirne le conseguenze sarà la civiltà nel suo insieme se non cominciamo a frapporre qualche sana barriera culturale.

  3. Adolescente trascrivevo (tema al ginnasio) una frase di Mark Twain “Non ho mai conosciuto un negro che non abbia il cuore dalla parte giusta”; una esagerazione pienamente giustificata in quell’epoca, poi parzialmente smentita. Quando alla parola negro si associò una notazione spregiativa, si disse originata da una credo fantasiosa derivazione dal niger di oltre atlantico, mi adattai alla assurda sostituzione con nero. Invece di confermare e garantire la piena dignità umana e civile del significante (per via del significato), opera meritoria e lieta tracciata da Mark Twain, che non era stupido, si preferì obliterarlo: il primo e globale manifestarsi della devastazione politicamente corretta, quella scempiaggine (scempio) che riconduciamo all’eterogenesi dei fini.
    Gentile Ladetto, apprezzo vivamente e come sempre la sua esposizione accurata e certamente documentata; cordialmente rimproverandole l’immeritata indugenza verso il fenomeno nelle sue origini: le parole non vanno imposte o vietate, mai; Prato San Desiderio non deve de iure e de podestà sostituire Pré St. Didier; pare che in Uk, non solo, abbiano dedicato secoli per potere pronunciare “gamba”. Che nell’uso appaiano espressioni sgradevoli è verissimo, quanto certe evidenze del gaypridismo, eufemisticamente disdicevoli; dirlo serenamente non guasta, senza macinare le gonadi al prossimo con tronfi dispotismi che non hanno nulla di corretto: sono grette e brutali imposizioni del mediaticamente bigotto.
    Il mediaticamente bigotto è la degenerazione di neotribalismi che si inzaccherano crotalando per le tane cunicolari soccial, prima di sciamare come calabroni odiatori, e finalmente esprimersi nelle sciocchinerie ottundenti di ferine e sciacalle appendici inguinali. Ne derivano statue sgozzate in attesa delle vittime umane, secondo cupe ritualità emergenti dai latebrosi recessi delle turpitudini purificatrici: la superstizione totemica, il tabù, trionfa sul normale, direi banale uso dell’intelligenza elementare.
    Lo dico alla buona, per mera semplicità: minimalmente invito al rifiuto della semplificazione lessicale, del dimagrimento del dizionario, dell’inaridimento del potersi esprimere, della negazione del parlare come si mangia, del chiamare le cose col loro nome: e se qualcuno si offende tagli la parte offesa e la dia al gatto.
    Ma le beghine del benpensantismo elettronical-mediatico si armano di mazze e cecità, colpiscono senza sapere, senza capire, senza neppure volere: gli aculei ottenebrati dalla presunzione iniettano veleni inconsapevoli di tag disconnessi e demenziali; in un raccontino scrivo: uno zoppo non è un diversamente deambulante, se ha bisogno di una mano sulle scale gliela diamo perché zoppica; non perché sia diverso.

  4. I talebani che cannoneggiarono le statue secolari del Bhudda si diedero ben presto ad affondare i coltelli nelle gole di carne degli esseri umani (soprattutto cristiani ma non solo). Bisognerebbe utilizzare largamente l’arma dell’ironia: mio padre, adolescente, abitava ad Aosta e raccontava che un gruppo di irriverenti negatori della political correctness fascista proposero di mutare il nome Prè St. Didier in Prete senza didietro; la cosa suscitò l’ilarità dei severi valligiani e gettò un lenzuolo di discredito perenne sulla smania del Minculpop di fascistizzare i toponimi stranieri.

  5. Ringrazio gli amici per i commenti sempre interessanti, e devo dare ragione a Ghella quando mi rimprovera gentilmente ricordandomi che le parole non vanno mai imposte o vietate, e che non può essere giustificato chi fa ciò qualunque sia la motivazione. Faccio mia questa osservazione anche per quanto riguarda l’odierna imperversante declinazione al femminile di vocaboli relativi a professioni o a cariche, come ministra o sindaca. Incamminandosi su questa strada, presto anche i maschietti dovranno pretendere di essere definiti “guido alpino” o “guardio forestale” e cose simili facendo questi mestieri. Altrettanto assurda è la messa al bando della parola “negro” che in italiano (come in francese “negre”) non ha in sé nulla di negativo. Ricordo che Leopold Senghor (presidente del Senegal e accademico di Francia) e Aimé Césaire (illustre poeta martinicano) chiamarono “Negritude” il movimento volto ad esaltare i valori della cultura degli africani e dei caraibici originari del continente nero. Aggiungo che anche in inglese il termine “negro” non ha carattere spregiativo. Martin Luther King ne faceva uso: ad esempio, in un discorso denunciò che “we negros are not still free”; in un altro rivendicò l’orgoglio di “we negros”. Malgrado ciò, mi è capitato più volte di sentire rinomati personaggi televisivi e noti giornalisti denunciare come razzisti quanti facciano o abbiano fatto ricorso al termine “negro”. Difficile stabilire il confine tra ignoranza e conformismo. 

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